Ci risiamo. Incombe la campagna elettorale e spuntano all’improvviso i famosi 6×3, con tutte le mirabolanti varianti di formato e allocazione su strada. Ciò che non varia è il copione. Una faccia sorridente stile “ho vinto alla lotteria”, il simbolo gigantesco (“chissà sbagliano a votare”) e l’immancabile slogan.
Ora, passi per la faccia giuliva, che, diciamoci la verità, è una costosa concessione all’ego, inevitabilmente smisurata, di chi fa politica (anche se non sono rari gli avvistamenti di mani a cucchiaio che escono fuori dal finestrino di un’auto ferma al semaforo e, indirizzate verso il faccione, accompagnano l’inconfondibile labiale di chi si chiede cosa mai ci sarà da ridere).
Passi pure per il simbolo enorme, il quale alla percezione di un puro idealista può anche evocare identità ed appartenenza, mentre agli occhi di un amante della democrazia può essere un segno di rispetto verso l’espressione di volontà da parte del popolo.
Ma gli slogan … e non mi riferisco a quelli dei leader nazionali; anche quelli detesto, ma almeno riconosco loro l’attenuante di dover condensare in un breve messaggio il marketing elettorale dell’intera campagna. Mi riferisco invece a tutta quella pletora di formidabili politicanti territoriali, più o meno di rango, che ogni volta si avventurano in alchimie semantiche, alla disperata ricerca dello scranno a Bruxelles.
L’amore esonda, il futuro è roseo, l’impegno non manca e di cambiamenti quanti ne vuoi. È la fotografia ad altissima risoluzione di un’Europa perfetta, prossimamente retta da statisti, ideologi e pasionarie, la maggior parte dei quali probabilmente non sa nemmeno cosa sia una risoluzione se non per sentito dire.
Se solo l’1% di quelle frasi fatte si convertisse in comportamenti di fatto… da noi pioverebbero soldi europei anche in Agosto, nessuno asfalterebbe il lavoro dei nostri pescatori con le maledette quote tonno, avremmo un aiuto più concreto con gl’immigrati, l’agricoltura fiorirebbe, il turismo esploderebbe e poi l’artigianato, il commercio, le start up …
E invece, questa è una terra che di slogan (taluni riuscitissimi) è morta troppe volte, tra sindaci che dicevano di saperlo fare e governatori che schifavano la mafia, tra consiglieri autoproclamatisi capipopolo e deputati con un cuore grande così; senza dimenticare quel Davide dal pelo rosso che, in sella a una moto Ape, sfidava i Golia mentre di nascosto riprendeva tutto e tutti.
Insomma, siamo ancora una politica che sloganeggia sui 6×3: così è se vi pare e anche se non vi piace. Per carità, lo slogan è una pratica a cui, almeno una volta nella vita, ognuno di noi ha ceduto. Ma cedervi ancora oggi è quantomeno anacronistico, è come scrivere l’epitaffio di una politica che non c’è più, equivale alla peggiore ammissione d’inadeguatezza ed arretratezza in cui un candidato possa inciampare. Siamo nell’era della web generation, del fact checking, del politicamente scorretto come nuova frontiera della comunicazione. Quei motti non comunicano, motteggiano; quelle scritte non coltivano voti, seminano antipatia. Venga pure il più esperto degli esperti a contestare questa mia riflessione, ma agli slogan non crede più nessuno, tolgono solo credibilità.
Eppure, ancora resistono e in tanti si piegano al fascino parolaio della sintesi. Perché non basta il faccione, no; e nemmeno l’immancabile sorriso Durban’s, rassicurante, accattivante, accondiscendente; serve una frase ad effetto, il cui unico effetto, però, è di moltiplicare quelle mani a cucchiaio che fuoriescono dai finestrini delle auto ferme ai semafori e generare labiali sempre più fantasiosi e coloriti. in questo, noi siciliani siamo dei veri geni!