Beni confiscati, un patrimonio nel "limbo": la sfida di Abramo

Beni confiscati, un patrimonio nel “limbo”: la sfida di Abramo

Il quadro è poco incoraggiante, ma il presidente della Comunità di Sant'Egidio è convinto che si possa cambiare passo.

CATANIA – Non vuole fare miracoli. Ma solamente mettersi a lavorare. E creare un percorso virtuoso, anche seguendo l’esempio di tanti che in questi anni hanno cercato di fare “la loro parte” contro una gestione, quella dei beni confiscati, che purtroppo è risultata per molti aspetti fallimentare. E purtroppo con aspetti “criminali”. Emiliano Abramo, catanese e volto della Comunità di Sant’Egidio, è stato nominato dall’Assessore regionale per l’Economia Gaetano Armao componente del Tavolo Tecnico in materia di utilizzo dei beni confiscati alla criminalità organizzata. Una sfida non certo semplice: c’è da definire una nuova strategia.

Il tema dei beni confiscati è stato per diverso tempo ignorato dai più. Poi c’è stato lo scandalo Saguto e qualcuno ha iniziato a togliersi i prosciutti dagli occhi. Ma c’è ancora tanto da fare. Da dove bisogna cominciare secondo lei? 

Riconoscendo il lavoro degli altri. Credo che spesso, quando si ha un nuovo incarico o si subentra al lavoro precedentemente svolto da qualcun altro, si ha l’idea di dover partire da zero. A volte lo si fa per scarsa capacità ed interesse del lavoro altrui, altre volte per vanità ovvero per la stupida voglia di affermare il proprio lavoro come il migliore possibile, quello che tutti aspettavano. In realtà ho accettato questo incarico solo per una logica di servizio (non è neanche remunerato) e per unirmi ad un lavoro importante che ha visto associazioni impegnarsi, imprenditori denunciare, politici sollevare con credibilità la questione morale, magistrati impegnati a costo della vita e lo dico nell’anno della beatificazione del giudice Livatino. 

Anche la commissione regionale Antimafia si è occupato di questo settore. Quello che viene fuori è davvero uno scenario preoccupante.

Il presidente Fava ha fatto buon lavoro sul tema dei beni confiscati alla mafia e anche io, in parte, negli ultimi anni ho avuto modo di dare un contributo alla Commissione regionale antimafia. Il lavoro descrittivo raccolto e pubblicato dalla Commissione è impressionante e ha ben evidenziato la quantità di difficoltà da affrontare, a partire dall’assenza di personale impiegato nell’agenzia nazionale. Ma nel lavoro svolto dalla Commissione antimafia bisogna spulciare bene la quantità di audizioni di persone impegnate, di esperienze virtuose che tra tante difficoltà hanno lanciato un messaggio di rinascita in luoghi impegnati nel produrre malaffare e che oggi invece vengono riassegnati al servizio del bene della collettività.

Aziende fallite, attività chiuse, ville distrutte, immobili lasciati al degrado. Un quadro così desolante, che molte volte porta a pensare che lo Stato ha fallito. E in qualche modo ha fatto vincere la mafia. Una riflessione troppo negativa secondo lei?

Un terzo delle aziende confiscate in Italia hanno sede in Sicilia, più di 1200 immobili sottratti alla mafia nella nostra isola e poche assegnazioni degli stessi e spesso, per motivi diversi, pessimi risultati nella gestione delle aziende. I numeri dicono questo, ma la presenza di tante forze impegnate, nelle istituzioni come nella società civile, parlano di una lotta che siamo destinati a vincere. A Brancaccio, di fronte al povero portone che permette l’accesso alla casa che fu di Padre Pino Puglisi, esattamente nel luogo dove il prete palermitano fu assassinato il 15 settembre 1993 c’è una scritta: “La mafia è forte, Dio è onnipotente”. Ecco, da cristiano penso che questa consapevolezza dia la forza giusta per lavorare tra questi numeri poco incoraggianti. 

La Sicilia è una delle regioni con il patrimonio più consistente di sequestri e confische. Se sapessimo usarlo bene potrebbe davvero dare una spinta anche economica e sociale alla Regione, non crede? 

“Ci sono troppe persone senza casa e troppe case senza persone”, diceva poco tempo fa il mio amico Mimmo Lucano. Accedere ad un patrimonio immobiliare immenso come quello confiscato alla mafia e renderlo fruibile per esempio alle tante persone in emergenza abitativa, ma anche all’associazionismo sociale, culturale e di ogni altra forma, rischia di cambiare il volto della nostra isola. 

Le aziende confiscate e destinate sono 952 su tutto il territorio nazionale, mentre 2976 restano in gestione. Questa è la fase più critica quando si passa dalla gestione mafiosa a quella dello Stato. Il mafioso guidava l’azienda fuori da tutte le regole economiche, di mercato, di lavoro. Lo Stato deve rispettare queste regole. Un evidente svantaggio, come si legge bene nel rapporto di Libera “le mafie restituiscono il maltolto”. La maggior parte delle aziende confiscate giunge nella disponibilità dello Stato priva di reali capacità operative ed è stata spesso destinata al fallimento o alla chiusura. Per quel che riguarda le aziende c’è l’oggettiva difficoltà di rendere produttive attività che per tempo non hanno mai versato contributi ai lavoratori, pagato i debiti, lavorato dentro un quadro di legalità. Veramente difficile far andare avanti queste aziende e realizzare utili, ma questa è la sfida.

Quale sarà il suo primo passo? 

Ovviamente incontrare le persone con le quali mi troverò a lavorare. Ma sicuramente disturberò il procuratore Zuccaro con il quale più volte abbiamo trattato il tema dei beni confiscati alla mafia, sapendo che reputa fondamentale un rinnovato utilizzo di tali beni. A seguire le associazioni, a partire dai miei amici del Centro Astalli, che a fatica per anni hanno utilizzato un bene confiscato alla mafia a Catania per accogliere i migranti ma che hanno dovuto abbandonare tale struttura perché lasciati forse troppo soli. Vorrei sentire Matteo Iannitti e quanti con lui da tempo si impegnano nella denuncia e nel recupero di tali beni. Sarà utile parlare anche con gli industriali, a partire dal nuovo presidente di Sicilindustria Gregory Bongiorno, per anni sotto scorta per avere denunciato il pizzo. Ma anche bravi curatori come Natale Costanzo o Valerio Scelfo molto impegnato anche nella gestione virtuosa di aziende sequestrate a Roma e a Milano. Insomma vorrei nell’immediato inserirmi di più in una rete che conosco bene e che ha già fatto tanto, provando a mettere a disposizione il mio lavoro che vuole sommarsi a quanto di buono sin oggi è stato fatto. 

Ha già deciso di attivare un canale con l’Agenzia nazionale? 

Negli anni, a partire dalla mia esperienza con Sant’Egidio, ho avuto modo di attivare contatti con l’Agenzia nazionale. Certo l’Agenzia è caratterizzata da una mole di lavoro non adeguata all’esiguo numero di persone impiegate e questo è causa di lentezza e imprecisioni, ma con un buon lavoro , stimoli e un po’ di creatività si può far meglio. Penso ad esempio che attrezzare un ufficio regionale che si occupi dei beni confiscati alla mafia, idea promossa dalla commissione regionale antimafia, possa essere un ausilio importante in Sicilia.

Questa battaglia si vince solo se si guarda tutti verso la stessa direzione. Possiamo vincerla?

Di istinto le risponderei di si, ma il mio impegno non è giustificato dall’idea di vittoria, piuttosto credo che c’è bisogno di innescare processi o di rafforzare quelli nati prima di noi. La mia generazione è giustamente cresciuta nel mito di Falcone e Borsellino, due grandi siciliani che, per certi versi, con la loro morte qualcuno potrebbe dire che abbiano perso. Il loro lavoro non gli ha consegnato la sconfitta della mafia, neanche l’arresto di Riina e Provenzano avvenuto dopo la loro morte. Il loro lavoro ha avviato un processo di lotta alla mafia che ha cambiato culturalmente la nostra isola. Allora credo che non dobbiamo ragionare in termini di vittoria, ma di indirizzare la storia verso un processo di liberazione che, per dirla ancora con il giudice Falcone, è destinato a finire come tutte le cose umane. 


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