Cosche particolarmente attive quelle sgominate dall’operazione “Eleio”, che proprio nel cuore della città sistematicamente portavano avanti rapine, estorsioni, traffico di stupefacenti, violenza e l’immancabile attività del racket utilizzato anche per il sostentamento degli affiliati della “famiglia” e per tenere in piedi il traffico illecito.
In particolare, il giro del pizzo colpiva diverse attività commerciali della città. A parte le richieste di denaro avanzate ai commercianti (anche due semestralità nei periodi festivi di Natale e Pasqua), gli “addetti” del mandamento si preoccupavano anche di imporre ai commercianti determinati fornitori.
È il caso della caffetteria Gian Flò di via Emerico Amari, finita nel mirino del clan. Dalle indagini è emerso che il titolare, Carmelo Santoro, avrebbe pagato 450 euro al mese per il pizzo a cui si aggiunge un’altra imposizione: la torrefazione della mafia. Antonino Abbate, indicato come il reggente della famiglia mafiosa, gli avrebbe infatti indicato da chi comprare il caffé. Il rappresentante “sponsorizzato” sarebbe Leonardo Leale, dipendente della Caffé Florio. I soci della ditta sono Maria Zaccheroni e Daniela Bronzetti, madre e moglie di Francesco Paolo Maniscalco già condannato a quattro anni per mafia. Il 22 marzo 2010 Abbate si mette d’accordo con Leale per incontrarsi e fare insieme un giro dei bar da contattare. La Caffetteria Gian Flò è uno dei bar a cui Abbate vuole imporre la fornitura (“GianFlo, bar Santa Lucia, bar Trinacria, bar King, bar Bristol, Margot”). Il 25 marzo 2010 Abbate ha bisogno di contattare Santoro e manda due suoi uomini fidati, Salvatore Ingrassia e Giovanni Trapani, a prelevarlo al bar per condurlo al suo cospetto. Abbate gli presenta Leale come “un carissimo amico nostro”. La risposta di Santoro all’inizio, però, è negativa (“si stava facendo il contratto con questo del caffé nuovo Barbera che sono di Messina”), ma l’insistenza di Abbate (“ora tu provi questo caffé e così noi…”) lo costringe ad accettare (“va bene”). Finito il faccia a faccia, nella stanza entra Leale. Dal lunedì successivo sarebbe iniziata la fornitura del caffé. E sono sempre Abbate e Santoro ad incontrarsi il 30 marzo scorso. Questa volta all’interno di una sala scommesse. Parlando a bassissima voce, Abbate chiede al commerciante la “cortesia” di anticipare il pagamento di una rata del pizzo: “perché siamo un poco stretti…”.
Non solo racket, ma anche “affari” nell’attività dei clan. Antonino Abbate, capo famiglia di Borgo Vecchio, era riuscito infatti a mettere in piedi un’ organizzazione che aveva interessi anche nei grossi appalti della città: una maxi estorsione è stata compiuta nei confronti di un industriale che lavorava ad un’opera pubblica nella zona portuale.Una richiesta del 3% (150.000 euro) sull’intera commessa di cinque milioni di euro dell’imprenditore. L’industriale, di cui ancora non si conosce il nome, ma si tratterebbe di un componente di Confindustria, finito sotto il cappio della rete malavitosa, non è stato ancora ascoltato dagli inquirenti per cautela nello svolgimento delle delicate indagini, ma sarà sentito già dalle prossime ore e potranno emergere nuovi particolari.
Il comandante provinciale dei carabinieri Teo Luzi ha tenuto a precisare che grazie alla collaborazione di trenta commercianti della città, finiti nel mirino della famiglia mafiosa palermitana, è stato possibile avviare le indagini. Nevralgiche sono state anche nell’attività investigativa le intercettazioni ambientali e telefoniche, senza le quali le forze dell’ordine non avrebbero avuto le fonti di prova per attuare il fermo degli arrestati. “Mi preme evidenziare l’apporto dei trenta negozianti – ha dichiarato il comandante Luzi – che hanno denunciato e collaborato con le forze dell’ordine. Questo è un segnale positivo che crea una consapevolezza maggiore nelle vittime. Una consapevolezza che sta emergendo sempre più e che ha provocato, in questo caso, l’ennesima crepa nel giro del pizzo in città”.