PALERMO – Il giorno del blitz, era il 10 novembre scorso, qualcuno si spinse a parlare di “ribellione di massa al Borgo Vecchio”. Quindici commercianti avevano denunciato o confermato di avere pagato il pizzo.
Alla prima udienza del processo si può azzardare un bilancio. Il “no al racket” si è tramutato in un gesto di ribellione consapevole in tre casi. È il numero di coloro che hanno deciso di costituirsi parte civile. Lo hanno fatto tramite gli avvocati Salvatore Caradonna e Serena Romano che li assistono singolarmente in quanto aderenti al comitato Addiopizzo che li ha accompagnati nel percorso di denuncia. Hanno scelto di diventare parte attiva del processo. Ecco perché si può parlare di una consapevolezza metabolizzata a distanza di mesi dagli arresti.
Sotto processo davanti al giudice per l’udienza preliminare Filippo Lo Presti ci sono ventuno persone. Per tutte i pubblici ministeri hanno chiesto il rinvio a giudizio. A cominciare da Elio Ganci, l’uomo che avrebbe preso le redini del potere, subentrando ai fratelli Domenico e Giuseppe Tantillo. Quando si seppe del pentimento di Francesco Chiarello i Tantillo si resero conto di avere i giorni contati e proposero Ganci, scarcerato nel novembre 2015, per la successione. Il tutto con la regia di Paolo Calcagno, reggente del mandamento di Porta Nuova che ingloba anche Borgo Vecchio.
Il blitz dei carabinieri del Nucleo investigativo del comando provinciale di Palermo fece emergere l’ennesima pagina di una città soggiogata dagli uomini del racket. I commercianti consegnavano i soldi a Giuseppe Tantillo, che nel frattempo è diventato collaboratore di giustizia. Richieste al ribasso – al massimo pagavano 500 euro a Pasqua e Natale -, ma a tappeto. Alcuni commercianti hanno pure negato l’evidenza, tanto che la loro posizione non è stata definita. Rischiano ancora l’incriminazione per favoreggiamento. Altri ammisero, messi di fronte all’evidenza delle prove raccolte, di avere pagato la tassa dei boss.
Se esistesse una classifica basata sul coraggio non ci sarebbe storia. La scelta di metterci la faccia diventando parte civile è il massimo che si possa chiedere a una vittima del racket. È davvero, però, soltanto una questione di coraggio? Chi, seppure non di propria iniziativa, ha confermato di avere pagato ha comunque mostrato la voglia di affrancarsi dal peso della criminalità organizzata.
E dopo? Chi è rimasto a lavorare al Borgo ha percepito, nella migliore delle ipotesi, un’ostilità che li ha costretti, ad esempio, a cercare la materie prime per la propria attività lontano dal quartiere. Nella peggiore, ha subito strani e ripetuti furti che non possono essere casuali. Senza dimenticare che alcuni degli estorti sono parenti degli stessi arrestati e dunque allineati alla logica del pizzo pagato per contribuire alle necessità dell’organizzazione. Un atto dovuto per fornire il proprio contributo a Cosa nostra.
Ha ragione Daniele Marannano di Addiopizzo quando dice che “collaborare a Borgo Vecchio, per certi versi periferia nel cuore del centro storico della città, rimane una scelta molto difficile. In questo quartiere, dove tutti si conoscono, nel quale è impossibile passare inosservati e in cui le sacche di degrado sociale ed economico sono così profonde, il valore della collaborazione delle vittime che stiamo supportando, benché sollecitate da investigatori e magistrati, è commensurabile a quello di chi, ancora pochi, in altre aree della città ha denunciato”.
È quanto accade altrove, dove il contesto è certamente meno disagiato, che si deve guardare per comprendere quanto Palermo sia ancora troppo lontana dalla normalità di una città libera dall’oppressione mafiosa.
“Ciò che più sorprende non è quanto emerge dal processo di ieri – sottolinea Marannano – ma l’atteggiamento di tanti altri imprenditori e commercianti che operano in altre zone della città e che sicuramente non sono attraversati dalle condizioni di difficoltà sociali ed economiche come quelle che attanagliano il Borgo Vecchio”.