PALERMO – Quando arriva il killer ergastolano tutti gli altri detenuti si alzano in piedi. Un segno di rispetto e di distensione in quella che si annunciava come un’udienza ad alta tensione. Non a caso ieri c’era uno spiegamento di forze raramente visto in un’aula di giustizia. Una quarantina di persone, fra poliziotti penitenziari e carabinieri, avevano il compito di assicurare che filasse tutto liscio al processo contro il clan di Porta Nuova.
Giovanni Di Giacomo, fratello di quel Giuseppe ammazzato per le strade del rione Zisa, nella stessa aula, anche se separati da un vetro blindato, con Tommaso Lo Presti, indicato dal neo pentito Vito Galatolo come il possibile mandante dell’omicidio. Emanuele ed Onofrio Lipari, padre e figlio, collegati in videoconferenza per evitare contatti con Di Giacomo che, così hanno svelato le microspie dei carabinieri, su di loro voleva scaricare la sua collera. Voleva vendicarsi perché li riteneva responsabili della morte del fratello. Una folla di parenti dentro e fuori dal Palazzo di giustizia. Insomma, di motivi di preoccupazione ce n’erano parecchi. Ed invece davanti al Giudice per l’udienza preliminare Lorenzo Iannelli si avvertirà solo il clima pesante. Va in scena, però, tutta la simbologia mafiosa.
Si comincia all’esterno del Palazzo. Davanti all’entrata laterale riservata ai detenuti che arrivano a bordo dei mezzi della polizia penitenziaria si raduna una folla di persone. Sotto processo ci Tommaso Lo Presti, classe 1975, detto ‘il pacchione’, Emanuele Vittorio ed Onofrio Lipari, Nunzio Milano, Marcello e Giovanni Di Giacomo, Stefano Comandè e Francesco Zizza. I parenti stanno lì ad aspettare per rubare uno sguardo attraverso i vetri dei cellulari. Giovanni Di Giacomo ritorna in città dopo una lunga assenza. Al suo ingresso in aula si alzano tutti in piedi. Viene fatto sedere assieme al fratello nel gabbiotto blindato. Un vetro spesso lo separa da Lo Presti e dagli altri detenuti. I loro sguardi non si incroceranno. Mai. Due giorni fa si è saputo che i Lipari sarebbero stati spediti a Napoli per ragioni di sicurezza. Dopo la costituzione delle parti Onofrio Lipari chiede la parola. Ci tiene a spiegare che lui non ha “motivi di astio contro nessuno e nessuno né ha contro di me”. Non c’è motivo per allontanarlo da Palermo. È il secondo segnale, dopo quel “tutti in piedi”, per dimostrare che non soffiano venti di guerra sull’aula. Il clima resta pacifico pure fuori dalla Corte d’assise dove i parenti dei detenuti si sono nel frattempo radunati. Formano dei gruppetti. Uno per ogni famiglia. L’uno distante dall’altro.
Eppure qualche mese fa, i carabinieri del Nucleo investigativo, carpirono segnali di pericolo. Dovettero intervenire in fretta per evitare il peggio. Il procuratore aggiunto Leonardo Agueci e i sostituti Caterina Malagoli e Francesca Mazzocco decisero di procedere con un fermo. Il 17 aprile Giovanni Di Giacomo aveva ricevuto un telegramma in carcere. Il mittente era il fratello Marcello: “Caro Gianni la salute del bambino tutto bene in unico abbraccio ti vogliamo bene”. Secondo gli investigatori, altro non era che la comunicazione dell’imminente messa in atto del piano di morte. Da qui l’urgenza dell’intervento dei militari.
Dopo l’arresto di Alessandro D’Ambrogio, considerato il leader del mandamento di Porta Nuova, Giuseppe Di Giacomo aveva scalato le posizioni di potere, forte della parentela con il fratello, storico componente del gruppo di fuoco di Pippo Calò. Nei mesi della sua ascesa, frenata con il piombo, erano sorti malumori. Ai Di Giacomo non era piaciuto l’atteggiamento dei Lipari, ritenuto “troppo distante”, e il loro obiettivo di mettere le mani sugli incassi delle sale scommesse della vittima. E così scattò la reazione. Giovanni Di Giacomo ordinò al fratello di riferire a Tommaso Lo Presti, che nel frattempo sarebbe tornato a comandare, di uccidere i Lipari: “… si preparano fanno l’appuntamento e mentre c’è il discorso fanno bum bum e s’ammogghia tutto”. Lo stesso Lo Presti che, ipotizzando il più classico dei voltafaccia, potrebbe avere “tradito” i Di Giacomo. Tra chi all’inizio non avrebbe gradito la scalata di Giuseppe ci sarebbe stato anche Nunzio Milano, pure lui tenuto lontano per ragioni di sicurezza dal Palazzo di giustizia palermitano. E lo aveva detto chiaro in faccia all’ergastolano durante un presunto faccia a faccia in carcere. Era il più anziano di tutti e una volta finita di scontare la propria pena avrebbe preteso di prendere il bastone del comando. Anche lui, alla fine, però, avrebbe obbedito a Giovanni Di Giacomo.
Qualche giorno fa sono sono venute fuori le dichiarazioni di Vito Galatolo a complicare le cose. “Giuseppe Di Giacomo aveva offeso Tommaso Lo Presti che voleva impadronirsi del mandamento e per questo fu ucciso – ha messo a verbale il boss dell’Acquasanta -. Lui mi dice il Graziano (Vincenzo Graziano, mafioso dell’Acquasanta di recente finito di nuovo in cella ndr) che l’omicidio Di Giacomo è stato avvenuto che forse… siccome era uscito Tommaso Lo Presti ‘u pacchiuni’, figlio di Totuccio, ed era uscito male intenzionato con tutti dice che si doveva prendere tutte cose nelle mani lui… ci dissi e che cos’è?… . ‘… è stato interno, forse c’è stata una riunione… mi hanno riferito che c’è stata una riunione’”. Galatolo ha raccontato che Graziano avrebbe saputo “che forse il Di Giacomo Giuseppe gli avrebbe dato o uno schiaffo a Lo Presti Tommaso, il pacchione, o lo avrebbe offeso con la bocca… ci dissi è per questo lo hanno ucciso a Giuseppe?’. ‘Sì dice, ci sono stati discorsi interni, però il pacchione so… mi ha riferito questo fatto che è male intenzionato, perché si doveva prendere tutte cose nelle mani’”. Non sappiamo se sia andata veramente così. I pubblici ministeri all’udienza hanno depositato una perizia che ha stabilito che l’arma che ha ucciso Di Giacomo, una calibro 38, è la stessa trovata nella macchina a bordo della quale, qualche giorno dopo il delitto della Zisa, fu fermato, tra gli altri, Fabio Pispicia, fratello di Salvatore, personaggio che conta nella mafia di Porta Nuova e cognato di Tommaso Lo Presti.
Le microspie rivelarono che Giovanni Di Giacomo era pronto alla vendetta. Uccidere fa parte del suo Dna. Fu lui ad ammazzare Natale Tagliavia, trovato incaprettato il 18 settembre ’81, e Filippo Ficarra, vittima della lupara bianca nel 1982. In carcere, su ordine di Totò Riina, Pippo Calò e Michele Greco, aveva cercato di avvelenare Gerlando Alberti “u paccarè”, lo storico capo della famiglia di Porta Nuova. Nonostante sia all’ergastolo da decenni Di Giacomo avrebbe continuato a dire la sua nelle dinamiche del mandamento. E ieri al suo ingresso in aula gli altri detenuti si sono alzati in piedi in segno di rispetto e deferenza. O forse era soltanto una messinscena, una sceneggiata.