Buttafuoco, il musulmano che guida la Biennale e il dietrofront di Meloni

Buttafuoco, il musulmano che guida la Biennale e il dietrofront di Meloni

La nomina che contraddice le dichiarazioni passate

Il nuovo presidente della Biennale di Venezia è un musulmano. Ed è anche siciliano. La sua nomina è parte di quella “occupazione” delle strutture culturali, così come dei mezzi di informazione, da parte della maggioranza. Di Pietrangelo Buttafuoco non condivido la posizione politica e tuttavia non mi dispiace la sua attitudine provocatoria e libertaria. Nei mesi passati ho avuto modo di incontrarlo perché ha presentato un mio libro a Roma e più recentemente l’ho ospitato alla Fondazione Orestiadi di Gibellina per una sua performance. Al di là della sua provenienza potrebbe fare un buon lavoro.

Per Meloni comunque è stato un bel passo avanti. Qualche anno addietro bocciò l’ipotesi della candidatura di Buttafuoco alla presidenza della Regione siciliana, sostenendo non fosse “una buona idea […] prendere in considerazione una personalità che ha deciso di convertirsi all’Islam […]. Credo che in questi anni l’Italia e l’Europa debbano rivendicare le proprie origini greche, romane e cristiane davanti a chi vorrebbe spazzarle via”. La presidente del Consiglio ha evidentemente un po’ modificato le proprie opinioni. Ha capito che la scelta religiosa rappresenta un fatto privato e non deve influenzare il giudizio sulle capacità di ciascuno.

Mentre un musulmano viene proposto alla guida di una delle più prestigiose istituzioni culturali del nostro Paese e del mondo, alcuni giorni fa un ebreo, laico ma ebreo, Moni Ovadia, da alcuni esponenti del partito di Meloni è stato costretto a lasciare la guida del teatro di Reggio Emilia per avere detto le stesse cose che scrivono molti giornali israeliani e che sostiene gran parte dell’opinione pubblica di quel Paese sul tragico conflitto in Palestina.

Di Moni Ovadia mi resta l’amicizia e il ricordo della sua disponibilità a dirigere gratuitamente il festival del Novecento di Palermo di cui sono stato segretario generale nei primi anni anni del 2000. Fu il tempo nel quale una giunta di destra, avendo vinto le elezioni al Comune di Palermo, anziché nominare propri esponenti alla guida del Festival, decise di annullarlo. Mi trovai a dover completare i progetti in corso e lo potei fare per l’intelligenza, la cultura e il disinteresse di Moni Ovadia.

Due personalità totalmente diverse, incomparabili, Buttafuoco e Ovadia, due storie e due espressioni dissimili e dissonanti che dovrebbero ugualmente trovare spazio in un Paese democratico. L’egemonia alla quale mira con interesse spasmodico e con molta velleità la destra, come tutte le manifestazioni di predominio, rischia di trasformarsi in una supremazia, in un elemento di discriminazione che in un tempo della storia del nostro Paese ha perfino assunto la tragica connotazione razziale.

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Il governo regionale e le forze di maggioranza hanno dedicato moltissimo tempo alla sanità siciliana. Delle diverse opinioni e dei contrasti hanno dato conto i giornali con intere paginate. Al centro del confronto vi erano delle cose serie: la “spartizione” di diciotto direttori delle ASP e delle Aziende sanitarie, che a loro volta indicheranno i primari.

Si doveva trovare, come si dice, la quadra tra le richieste dei partiti che avranno tenuto conto dei problemi enormi di un settore vitale per tutti ma naturalmente in modo prioritario degli equilibri interni e delle elezioni europee, nelle quali un direttore in più o uno in meno potrebbero fare la differenza. I nostri governanti e chi li sostiene per giorni hanno cercato di trovare un metodo, una sorta di aggiornato “Manuale Cencelli”, famoso al tempo della prima Repubblica, al quale si ricorreva al momento delle nomine del cosiddetto sottogoverno e perfino nella scelta dei ministri e dei sottosegretari – ché la lottizzazione non è roba di ora, praticandosi anche nel passato, magari con qualche rispetto in più delle forme.

Non trovando l’accordo hanno immaginato di ricorrere alla lotteria, alla riffa con il bambino bendato che estrae dall’urna i nomi dei nuovi direttori o, in alternativa, ai like dei cittadini ai candidati, come si fa con le recensioni ai ristoranti. Lo ha detto uno degli esponenti della maggioranza, ché per ottenerli, i like, i ristoranti si impegnano di più a preparare buoni cibi. Ma nulla ha funzionato e alla fine sono stati prorogati gli attuali direttori. Quanto ai nuovi, se ne parlerà a febbraio. Nessuno può negare l’interesse della giunta e della maggioranza per la sanità, un “interesse concreto” che magari non coincide con quello di chi per mesi aspetta una visita o di chi, per ore e ore, attende nei pronto soccorso. Non hanno tentato di trovare rimedi allo smantellamento del sistema pubblico, ai permanenti viaggi verso le strutture sanitarie del Nord, alla preferenza dei medici verso il settore privato. Ma tant’è. L’“interesse” va tutelato. Se anziché sette, di direttori, ne toccano sei a Fratelli d’Italia o uno in meno o in più alla Lega o a Forza Italia, la questione non è da poco. Ora una pausa di riflessione. C’è da sperare che a febbraio, trovando l’accordo, se resterà fuori dalle indicazioni uno bravo, qualcuno se ne faccia carico.

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Un tempo si diceva “le ultime parole famose”. E quelle di Meloni, tra le più recenti, sono “la nostra maggioranza politica è compatta, fatevene una ragione”. Eppure proprio in questi giorni appare manifesta la litigiosità delle forze di governo su tutto, in modo clamoroso sulla proposta di legge finanziaria e di bilancio. Ma governano o per lo meno gestiscono il potere e lo faranno ancora per un bel po’ di tempo, sostenuti da un discreto consenso dell’opinione pubblica e principalmente dalla irrilevanza delle opposizioni. I contrasti a destra sono su “cose reali”, a sinistra risultano impalpabili e spesso incomprensibili. Quando gli “statisti” di questa parte politica capiranno di dovere sul serio stare insieme ed elaborare un progetto per una alternativa, può anche darsi che Meloni parlerà meno della compattezza della maggioranza. Ché pure la presidente del Consiglio ci torna spesso, e sempre con il viso dell’arme e con la voce dura che dovrebbero dare più peso alle sue affermazioni.

Mi diverte la costante sfida all’opposizione, la provocazione nei confronti dei suoi avversari, il tono appuntito con il quale esprime la voglia di cercare i nemici e di sfidarli. Lo fa con un atteggiamento che la assimila, almeno a mio modo di vedere, ad un’adolescente un po’ stizzosa, a quella che si sente la più brava della classe e che si rivolge ai suoi compagni con un gesto antico, quello di poggiare il pollice sul naso e muovere le altre dita a scherno. Meloni, che pure ottiene dei punti nei rapporti internazionali, che ha avuto la capacità di portare al governo del Paese un piccolo manipolo per lo più di nostalgici, a volte non riesce ad assumere la postura di un capo di governo che cerca di affrontare le difficoltà smussando gli angoli, rispettando gli avversari, cercando coesione, coinvolgendoli, in qualche caso. Rimane spesso una capopopolo, una simpatica e anche brava esponente di quella realtà politica a lungo minoritaria e, a proprio giudizio, discriminata. Ha conquistato il giocattolo e fa marameo agli avversari.


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