PALERMO – “Allora lui è la persona che è a capo del mandamento fino al giorno del nostro arresto di Porta Nuova”, dice Giuseppe Tantillo quando gli mostrano la foto di Paolo Calcagno.
Su Calcagno, insospettabile imprenditore del settore ittico, piovono le accuse del neo collaboratore di giustizia del Borgo Vecchio. Tantillo ne fa risalire l’ingresso in Cosa nostra quando era ancora in libertà il reggente del mandamento di Porta Nuova, Alessandro D’Ambrogio: “Prima del nostro arresto e prima che lui fosse a capo famiglia di Porta Nuova è stato sempre una persona di primo piano nel mandamento perché anche ai tempi di D’Ambrogio lui era una persona che si muoveva diciamo che era autorevole nel senso che era come ho appreso da Nino Ciresi lui era una persona diciamo battezzata in quanto nel mandamento di Porta Nuova lui ci aveva diciamo carta bianca anche insieme ad Alessandro D’Ambrogio”.
Spia della sua autorevolezza sarebbe il fatto che Calcagno faceva anche da ambasciatore di D’Ambrogio: “… quando c era Alessandro D’Ambrogio che a volte veniva anche lui a portare qualche messaggio di Alessandro ha detto ci vediamo lì oppure e diciamo si dava da fare per la famiglia del Capo ma era una persona autorevole. Anche quando c’era Di Giacomo e D’Ambrogio in cui lui negli ultimi tempi dopo è divenuto diciamo la persona chiave la persona chiave del capo… che veniva anche al Borgo a prendere anche qualche soldi delle estorsioni che noi raccoglievamo quando aveva di bisogno qualcosa di soldi noi gliela davamo a lui in quanto qualunque problema c’era e qualunque discorso noi ci rivolgevamo a lui”.
E così quando nel 2014 uccisero Giuseppe Di Giacomo fu a Calcagno che si rivolsero per avere notizie in un momento di forte destabilizzazione: “… dopo un paio di giorni che era morto Di Giacomo lui ci diceva che c’erano stati tanti discorsi sulla morte di Di Giacomo in cui si pensava che Lipari lo avrebbe ucciso in cui non doveva andare da nessuna parte… lui diceva che il dubbio era sopra il padre del Lipari perché avrebbe avuto qualche discorso anche con Di Giacomo e tante altre cose che dopo si sentivano dire”.
Emanuele ed Onofrio Lipari, padre e figlio, sono stati condannati con l’accusa di avere fatto parte del mandamento di Porta Nuova. Le microspie hanno svelato che Giovanni Di Giacomo, killer ergastolano e fratello di Giuseppe, li riteneva responsabili della morte del fratello. Nei mesi scorsi, durante il processo, Onofrio Lipari ha preso la parola per spiegare che lui non ha “motivi di astio contro nessuno e nessuno né ha contro di me”.
Dopo l’arresto di D’Ambrogio, Giuseppe Di Giacomo aveva scalato le posizioni di potere, forte della parentela con il fratello, storico componente del gruppo di fuoco di Pippo Calò. Nei mesi della sua ascesa, frenata con il piombo, erano sorti malumori. Ai Di Giacomo non era piaciuto l’atteggiamento dei Lipari, ritenuto “troppo distante”, e il loro obiettivo di mettere le mani sugli incassi delle sale scommesse della vittima. E così scattò la reazione. Giovanni Di Giacomo ordinò al fratello di riferire a Tommaso Lo Presti, che nel frattempo sarebbe tornato a comandare, di uccidere i Lipari: “… si preparano fanno l’appuntamento e mentre c’è il discorso fanno bum bum e s’ammogghia tutto”. Lo stesso Lo Presti che, ipotizzando il più classico dei voltafaccia, potrebbe avere “tradito” i Di Giacomo. Almeno così racconta un altro pentito, Vito Galatolo, che indica in Tommaso Lo Presti il possibile mandante del delitto.