CATANIA – La notizia della scarcerazione e della libertà vigilata di Giovanni Brusca, seguita da un regime di protezione sotto falsa identità, ha scatenato un’ondata di sconcerto e indignazione in tutto il Paese. Tra le voci che si levano c’è quella di Riccardo Pellegrino, Vicepresidente Vicario del Consiglio Comunale di Catania.
“Lo sconcerto è forte, l’indignazione palpabile. Giovanni Brusca, uno dei boss mafiosi più spietati della storia criminale italiana, è oggi un uomo libero. Ha scontato 25 anni di carcere, poi 4 di libertà vigilata. Adesso vivrà sotto falsa identità, protetto dallo Stato. Ma la domanda è: dov’è la giustizia?”, si chiede Pellegrino, richiamando la memoria delle atrocità commesse da Brusca.
Un dilemma tra collaborazione e giustizia per le vittime
Pellegrino ricorda le responsabilità di Brusca: “Brusca ha premuto il telecomando che fece esplodere l’autostrada a Capaci, uccidendo Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. Ha sciolto nell’acido un bambino di 12 anni, Giuseppe Di Matteo. È stato responsabile di decine di omicidi. La sua libertà è uno schiaffo alla memoria delle vittime e al dolore eterno delle loro famiglie”.
L’analisi di Pellegrino tocca il delicato equilibrio tra l’efficacia della collaborazione con la giustizia e il rispetto dovuto alle vittime. “Certo, Brusca ha collaborato con la giustizia. E anche se la legge che ha permesso questa scarcerazione è frutto del lavoro proprio di Giovanni Falcone, il dilemma resta aperto: come conciliare l’esigenza di informazioni per combattere la mafia con il rispetto dovuto a chi ha perso tutto?”, prosegue Pellegrino, evidenziando una ferita aperta nella percezione della giustizia.
Lo Stato tra protezione e abbandono: il caso Pagliarelli
Il Vicepresidente del Consiglio Comunale di Catania non si ferma al caso Brusca, ma amplia la riflessione sullo stato della giustizia in Italia, ponendo a confronto la protezione offerta a Brusca con le condizioni di altri detenuti. “Non possiamo accettare che un uomo così venga reintegrato nella società sotto protezione, come se nulla fosse accaduto. Mentre detenuti per reati minori muoiono dimenticati dallo Stato”, afferma.
Pellegrino porta come esempio il tragico caso del detenuto catanese morto nel carcere di Pagliarelli a Palermo, “una ferita aperta”: “Un uomo colpito da un ictus emorragico è stato lasciato senza cure adeguate, perché il suo referto è stato fatto leggere a un medico tre mesi dopo. Tre mesi. Quell’uomo è uscito dal carcere cadavere. Senza protezione, senza diritti, senza voce. È questo lo Stato giusto che vogliamo?”.
La sua riflessione si conclude con un forte monito: “La giustizia non può funzionare così. Non può bastare un pentimento strumentale a cancellare l’orrore. Il vero riscatto, se mai possibile, deve passare da una vita al servizio degli altri, tra i poveri, tra chi ha bisogno. Solo così si può iniziare a comprendere il significato del sacrificio e dell’amore per il prossimo. Non nell’anonimato garantito da un programma di protezione”.
“Lo Stato – continua Pellegrino – ha il dovere di proteggere chi collabora, ma non può permettere che il prezzo sia la dignità calpestata delle vittime e l’abbandono di chi, invece, ha sbagliato e paga nel silenzio, spesso fino alla morte. Il messaggio che mandiamo ai cittadini è devastante: puoi compiere il male assoluto, e un giorno, se collabori, potrai rifarti una vita. Questo non è accettabile. Non possiamo dimenticare. Non dobbiamo smettere di indignarci. La giustizia deve essere vera, equa, e rispettosa del dolore di chi ha perso tutto”.