I fantasmi tornano ad agitarsi quattro anni dopo. A scuotere il silenzio, questa volta, non è il fragore di un’arma. Non è un fucile caricato a pallini a riaccendere i riflettori ormai freddi; le parole di un magistrato, di un procuratore, riportano indietro il nastro di un film tragico e che racconta di otto, forse dieci, morti. Cassibile, 5800 abitanti. Quartiere anomalo di Siracusa, distante oltre dodici chilometri.
Sui libri di storia se ne parla perché qui, il 3 settembre del 1943, venne firmato l’armistizio con gli anglo-americani. Su internet, invece, se ne parla accostando questo pezzo di terra ad un “mostro”, un killer, autore di otto, forse dieci, omicidi compiuti in poco più di sette anni. Ugo Rossi è arrivato a Siracusa da poco più di un mese. Dopo anni trascorsi alla Dda di Catania, è lui il nuovo capo della Procura della Repubblica. Parla, racconta, misura le parole all’esordio davanti ai cronisti, poi… Poi parla di un’inchiesta in particolare, quella sul mostro di Cassibile, e le sue parole sono nette: “Nessun serial killer. Gli omicidi sono tutti slegati tra di loro”. Punto. Anche tra gli investigatori – vecchi e nuovi – la sorpresa è difficile da mascherare; anche se è il Procuratore capo a parlare. A quattro anni dall’ultimo omicidio, l’argomento veniva trattato con estrema attenzione. Mai, quel “mostro” temuto da qualcuno, aveva fatto trascorrere così tanto tempo tra un omicidio e l’altro. E allora? Il “mostro” è morto.
Amen. Infarto, addirittura incidente stradale. Nessuno conferma, nessuno smentisce anche perché gli investigatori, in questi anni, non hanno risparmiato ipotesi e piste. Indagini che si sono incrociate, si sono confrontate; ma spesso si sono contrastate. Da una parte chi ha sempre creduto al serial killer. Dall’altra, chi ha cercato sette diversi assassini.
Ora, il procuratore Rossi non vuol più parlare della vicenda. Almeno davanti ai taccuini del cronista. Le indagini non sono mai state chiuse, l’inchiesta è aperta e, adesso, qualcuno legge il suo silenzio come un chiaro segnale. I dubbi, però, restano. Come resta lo stupore di alcuni investigatori che, pur con idee diverse, ritengono importanti le parole del neo procuratore. Nessuno di loro, però, conferma il fatto che, in questi anni, qualcuno potesse essere stato individuato, focalizzato in quel complicato mosaico oscuro messo insieme da polizia, carabinieri, magistrati, medici legali, Ris e Unità analisi crimini violenti. Così, l’ipotesi che il “mostro” possa essere morto in un incidente stradale, appare come l’ennesima, beffarda ed irrazionale voce di paese. Quasi un sinistro gioco, un passaparola tetro che non serve a spiegare quegli otto, forse dieci, omicidi.
Chi propende, da sempre, per l’ipotesi seriale, parte da considerazioni elementari ed incontrovertibili. La temporalità, la dinamica, l’arma, le vittime, la zona ben circoscritta. Chi cerca, da sempre, più assassini, sostiene tesi contrarie non considerando importante l’arco di tempo durante il quale sono stati compiuti i delitti, allargando la zona rossa fino ad aggiungere altri due omicidi (anomali) compiuti in quell’arco di tempo, individuando i possibili moventi per almeno due di quegli assassinii. In questo secondo caso, nessun legame tra i fatti di sangue o, almeno, tra alcuni di questi. Ma l’ipotesi seriale, nel caso di Cassibile, non è affatto un semplice e contorto gioco mediatico.
Le domande restano tutte aperte; e neppure le certezze del Procuratore sembrano scalfire le convinzioni di alcuni investigatori. Ma in questa catena di sangue le stranezze e le ricostruzioni anomale sono tante. Come nel caso che apre la serie, il 24 maggio del 1997. Gioacchino Franzone è un uomo di 74 anni, viene colpito da una fucilata ad un fianco mentre si trova in campagna, a bordo del suo trattore. Cinque anni dopo l’inchiesta viene archiviata; quell’uomo, si stabilisce, è stato vittima di un marchingegno artigianale che lui stesso aveva realizzato per proteggere il suo appezzamento. Gli investigatori non hanno mai smesso di credere all’omicidio; la ferita, la zona del corpo raggiunta, non era compatibile con quell’attrezzo, continua a ripetere qualcuno ancora oggi.
Tre mesi dopo, il 13 agosto del ’97, è impossibile avere dei dubbi. Rosario Basile, ragioniere di 42 anni, si gode la frescura estiva nella veranda di casa insieme ai due genitori. Una fucilata, sparata da non più di tre metri, lo inchioda alla sedia. La vittima non ha mai avuto precedenti con la giustizia, è ben voluto a Cassibile, non ha, apparentemente, niente da temere. Gli investigatori verbalizzano: pallini, esplosi da una doppietta, da una distanza non eccessiva, da un angolo dietro il quale la campagna, ed il buio, garantiscono una comoda fuga. Trascorrono nove mesi prima che le sezioni omicidi tornino a Cassibile. Il calendario scorre fino al 29 maggio del 1998. Il cadavere è quello di un’ex guardia giurata, freddata all’interno della sua auto vettura in una stradina di campagna che, in quel preciso punto, si restringe e devia leggermente. L’assassino lo sa bene, tanto che prepara con cura il nascondiglio ideale per il suo fucile aspettando che Stefano Arcidiacono, 46 anni, arrivi all’appuntamento. Anche in questo caso, chi spara, lo fa con incredibile precisione.
Per la prima volta si cominciano ad incrociare le indagini con i due omicidi precedenti. Il timore del “mostro” resta ancora strozzato in gola di pochissimi investigatori. Il 25 aprile del 2000, però, la lista si allunga. Giovanni Ficarra, 68 anni, è un pensionato tranquillo che si gode la serata di festa in compagnia di amici (almeno una decina) seduto alla lunga tavolata di casa. Chi lo colpisce lo fa con estrema precisione e da una certa distanza. L’obiettivo è lui e, pur tra tante persone, nessun altro viene sfiorato da un solo pallino. L’assassino, anche in questo caso, ha dietro di sé l’aperta campagna. Polizia, carabinieri e magistrati continuano a non escludere nulla, scavando nelle pieghe apparentemente più insignificanti dell’uomo. La strada del killer solitario, però, comincia ad essere presa in considerazione. Siamo a dicembre dello stesso anno. Il giorno 21 è il turno della prima donna. Maria Callari ha 29 anni, fa la bracciante agricola, sposata. Viene ammazzata sotto casa e da una distanza che gli investigatori ritengono considerevole. Una settimana prima una rosata di pallini si era infranta sul contatore dell’Enel della sua abitazione. Lei, attirata in strada da un principio di incendio a bordo della sua autovettura, era stata sfiorata.
Con questo omicidio, su Cassibile, scende il silenzio perché ci vogliono oltre due anni e mezzo per tornare a vedere i fantasmi. Fantasmi che ricompaiono in una sera d’estate del 2003. Il 31 luglio, per l’esattezza. È il primo duplice omicidio della lista. Soltanto il caso evita che nel fascicolo i nomi dei morti siano tre. Katia Tinè, ventiseienne, viene ferita lievemente nella veranda della villetta di Fontane Bianche, la zona balneare che spinge fino al mare il territorio di Cassibile. Sulle due sdraio accanto alla sua, restano i corpi dei genitori, Sebastiano, di 65 anni, e Giuseppa Spadaro, di 58. Per la prima volta gli investigatori recuperano i bossoli dell’arma che ha sparato.
Prima una doppietta, adesso un semiautomatico. Siamo all’epilogo che si consuma il 18 agosto del 2004 vicino all’ingresso del tratto autostradale che dalla città porta a Cassibile. Riverso a terra, vicino alla sua bancarella, resta Giuseppe Spada, 47 anni, venditore ambulante con qualche precedente con la giustizia. Lo fulminano alla schiena, dalla campagna, dove il buio – anche questa volta – è l’ottimo e primo alleato di chi deve fuggire. La lista si completa così. Ma la lista di chi ha sempre creduto e, ancora oggi, crede all’ipotesi del serial killer ha bisogno di legare anche le vite delle vittime e creare un possibile identikit del “mostro”.
Non aiuta molto la strana lettera che la mattina del 5 agosto del 2003 viene recapitata in forma anonima nelle redazioni dei quotidiani siracusani. L’autore, nelle 37 righe scritte al computer in buon italiano, traccia il ritratto del presunto serial killer di Cassibile. Ne viene fuori l’immagine di una persona economicamente agiata, buon cacciatore, che dopo il duplice delitto di Fontane Bianche sarebbe andato anche in crociera.
Tra un interrogativo e l’altro l’ano nimo ipotizza che ci si possa trovare al cospetto di “un perso naggio che si è eretto a giustiziere morale del paese. Non in tutti i campi però. Un possibile giustiziere, qualcuno che ha avuto for te il senso della giustizia ma non quello della legge dello Stato”. Sulle modalità diverse dell’ultimo delitto poche parole: forse l’apertura di un nuovo capitolo e l’aggiornamento (vedi l’arma) dell’assassino. Gli investigatori, da una parte e dall’altra, acquisiscono, leggono, cercano di dare il giusto peso, provano a verificare. Restano i legami tra le vittime: pochi, pochissimi, quasi nulli.
Allora, se serial killer c’è, perché quelle persone? Perché “giustiziere morale”? Di cosa? I nomi delle vittime appartengono alle famiglie storiche di quella frazione nata nel borgo che sogna l’autonomia. Ma perché punirle? Chi è, cosa rimprovera, cosa ha perduto, quale offesa ha subito il “mostro”? Domande che non si pongono, invece, quegli investigatori convinti di altro. Investigatori che allungano la serie dei delitti – “perché non mettere dentro gli omicidi di Antonio Frasca, autista dell’Ast ammazzato a colpi d’ascia dentro la sua macchina lungo la strada che porta a Cassibile, o quello di Rosario Rizza Timpanello, taglialegna incensurato ucciso, guarda caso, con un colpo di fucile nelle campagne di Noto il 28 gennaio del 1999?” – e che per almeno due dei casi affibbiati al mostro – delitti Basile e Ficarra – sarebbero riusciti ad individuare un possibile movente per entrambi. Nell’inchiesta, nel 2004, arriva anche un’inaspettata accelerata. Sul registro degli indagati arrivano tre nomi.
C’è anche una donna, appassionata di caccia e ottima conoscitrice delle campagne attorno a Cassibile. Qualcuno grida alla svolta; i magistrati predicano prudenza e smorzano qualsiasi entusiasmo. Avevano ragione, perché non basta il sequestro di decine di fucili per riuscire a risalire alla possibile arma usata dal killer. Quindi le anomalie. Come nel caso dell’omicidio Callari. Se l’assas sino è un ottimo cacciatore, dalla mira inesorabile, perché il 13 dicembre fallisce il bersaglio ed una settimana dopo lo coglie da distanza ragguardevole? “È la stessa persona ad avere sparato?”, si chiedono gli investigatori. La donna, dopo il primo avvertimento, aveva dichiarato di conoscere il possibile autore ma che “le sue storie sapeva sbrigarsele bene da sé”.
E poi l’omicidio Spada. Se l’uomo è stato punito dalla criminalità organizzata, perché non ricorrere al classico agguato? Perché rischiare di “perdersi” nella campagna fitta che, in quella zona, può essere piena di insidie? Forse un omicidio mascherato, pensa qualcuno. Un modo per sviare le attenzioni degli investigatori. Un fantasma in più a firmare con il “mostro”. Ora le parole del nuovo Procuratore della Repubblica arrivato dalla Dda. I fascicoli dell’inchiesta, in questi anni, sono arrivati anche sui tavoli catanesi dove l’antimafia ha scritto e riscritto la storia del malaffare dell’intera provincia. Tra quelle carte, probabilmente, si sono incrociate anche le storie di quegli otto, forse dieci, morti.
Le certezze di Ugo Rossi potrebbero essere sostenute dal racconto di qualche collaboratore di giustizia, suggerisce chi riesce a leggere tra le parole. Una nuova storia quindi, un nuovo scenario che riaccende i riflettori su Cassibile. Otto, forse dieci, assassini diversi nella terra che fu del “mostro”. Ma qualcuno non ci crede ancora.
di Prospero Dente