La sensazione è quella di chi avverte che, dopo un attimo di dolcezza, qualcosa di terribile dovrà pur comunque accadere. Ineluttabilmente. Come la morte. Una comune storia sbagliata (Algra editore) è l’ultimo romanzo di Giovanni Coppola, penna inquieta e militante. Dentro c’è il racconto di una Catania sudata, dalle ginocchia sbucciate, sognatrice, meretrice e sporca.
Si tratta di un racconto generazionale, di quella generazione tra i ’60 e i ’70 che prima ha creduto nelle promesse di libertà, gioia e vitalità, per poi doversi arrendere alle dinamiche desolanti di una criminalità che ad alcuni ha offerto la possibilità fatua di poter essere qualcuno (salvo accorgersi di non essere niente).
Sono pagine belle, emozionanti ed emozionate. Che restano attaccate alle dita sulla scorta di quell’amarezza che accompagna tutto il romanzo e che inevitabilmente contagia il lettore, fino a sentire l’aria mancare. Sembra infatti che, alla fine, ogni legame sia destinato a spezzarsi e ogni felicità obbligata a presentare il conto. Teatro della storia è il quartiere Picanello, tra le villette di una Catania decadente, urbanizzazione disordinata e selvaggia e quel mare alle spalle che offre a chiunque una prospettiva di uscita.
Insomma, un libro che non si racconta. Una trama che si apprende un passo alla volta e che procede con una velocità spiazzante. Un libro che costringe a fare i conti con se stessi, anche al di là dalla propria appartenenza territoriale, perché sono tanti i figli di Catania a sentirsi comunque interrotti. Ma a qualche rettangolo di terra bisognerà comunque appartenere ed è a quello che si resterà legati come fosse il paradiso perduto. Non ci sono alternative.