Lui comunica con gli occhi. Li chiude o li apre per far sapere le sue decisioni, per dire “sì” o “no” a seconda delle circostanze. In un servizio delle “Iene” lo abbiamo visto abbassare le palpebre per esprimere una chiara volontà: restare con la sua famiglia e dire di no a una morte a cui lui stesso, inizialmente, pareva volesse andare incontro per togliersi dalle sofferenze. O, forse, per togliere gli altri – in primis i suoi familiari – dalle sofferenze. Perché in casi del genere, quando il malato non è più una persona indipendente e in grado di parlare, è difficile tracciare la linea di confine tra l’effettiva volontà del paziente e quella che i suoi cari presumono sia la sua volontà.
Salvatore Crisafulli – rimasto paraplegico in seguito a un incidente stradale di sette anni fa e risvegliatosi nel 2005 dal coma vegetativo – pareva destinato a dover morire in Belgio, dove c’è una legge che disciplina l’eutanasia, ma alla fine ha deciso di vivere. Ha deciso di vivere, suscitando la gioia della madre e del fratello Pietro, che si sentono abbandonati al loro destino perché da sette anni invocano per Salvatore un piano ospedaliero personalizzato a casa. E invece ricevono soltanto un paio d’ore d’assistenza al giorno per una persona che avrebbe bisogno di cure 24 ore su 24. Oggi, il caso di Salvatore – seppur diverso da quello di Eluana Englaro, la donna morta tra le polemiche il 9 febbraio 2009 dopo 17 anni vissuti in stato vegetativo – ha riacceso il dibattito sull’eutanasia e sull’opportunità di una legge sul testamento biologico. Ne abbiamo parlato con lo storico della Chiesa, don Francesco Stabile, parroco a Bagheria.
Padre Stabile, ha visto il servizio delle “Iene” dedicato a Salvatore Crisafulli?
“Sì, ho visto il servizio. In questo caso si tratta di una persona che è cosciente di sé. Non c’è in ballo una questione di alimentazione, quindi si tratterebbe di un vero atto di eutanasia. Io non sono favorevole all’eutanasia in quanto tale. Dal servizio si capisce che quest’uomo ha cambiato opinione nel giro di poco tempo. Ora mi chiedo: come si fa a essere sicuri che quell’opinione è ciò che davvero desidera e non sia invece frutto di un momento di scoraggiamento? Forse è il frutto di una società che non prende cura, non assiste. Perché il vero problema, da quello che ho capito in base alle dichiarazioni della madre e del fratello, è che sono abbandonati a se stessi, in quanto la comunità sociale e l’amministrazione danno quei pochi servizi che però non sono sufficienti a tutelare la persona”.
La famiglia, infatti, non vorrebbe far morire Salvatore. Chiede più assistenza.
“Certo, la famiglia fondamentalmente rimane sola, sia sul piano economico che psicologico, di sostegno perché, quando c’è un ammalato di lunga durata in quelle condizioni, la famiglia si stressa in una maniera impressionante. È chiaro che in un caso del genere l’eutanasia non è accettabile perché si tratta di un uomo in piena coscienza che riesce a comunicare le sue decisioni. Ora, come facciamo a definire qual è la decisione più giusta? Salvatore in qualche modo viene condizionato dal fatto di veder soffrire i suoi familiari. Dov’è la libertà di scelta? Alla fine quest’uomo vuole vivere. Allora il problema è di una società che deve prendersi carico di queste persone. Quello che si fa è troppo poco. E poi bisogna promuovere una solidarietà allargata per non lasciare sola la famiglia. È preferibile che Salvatore rimanga a casa, però ci deve essere tutto l’appoggio sul piano economico, dei servizi, ma anche sul piano umano da parte degli amici, dei conoscenti. Bisogna intervenire a vari livelli. È un caso diverso da quello di Eluana, dove non c’era più coscienza, non c’era nessuna forma di comunicazione”.
Eluana era in stato vegetativo. Eppure Salvatore, una volta che si è risvegliato dal coma vegetativo, ha fatto sapere attraverso un computer sofisticato che anche in coma capiva tutto.
“Questo non lo sapevo. Nel dubbio bisogna stare molto attenti. Poi ogni caso è un caso unico. Comunque, per Eluana, il problema era un altro, l’alimentazione attraverso le macchine”.
Tornando al punto di prima, lei dice che Salvatore si senta condizionato dalla sofferenza dei suoi familiari.
“Il principio che ognuno è libero di decidere spesso inganna. Quanto si è davvero liberi, quanti condizionamenti abbiamo? Una società diversa, un approccio diverso nei suoi confronti, non avrebbe potuto, anche in partenza, dargli una visione diversa? E invece di fare una scelta di morte, avrebbe fatto da subito una scelta di vita. Io per principio non sono favorevole a un’eutanasia così lampante, così chiara”.
A volte, appunto, è proprio la società moderna, con la sua tendenza a considerare inutile una persona la cui vita dipende da altri, a invocare l’eutanasia ritenendo che sia voluta dal paziente, quando magari nel paziente c’è invece un forte attaccamento alla vita.
“Sì, così si deresponsabilizza, cioè la società lascia che te la sbrighi da solo, come con l’aborto. Cioè, è una società che lascia all’individuo un peso e che non si fa carico dei problemi delle persone. È una società ipocrita che non vuole spendere niente non solo in termini economici, ma anche umanamente, di relazioni, nei confronti delle persone in difficoltà. Non è vero che le persone sono totalmente libere di fare delle scelte, non sono messe nella condizione di poter fare scelte vere. Molte volte sono persone che scelgono per necessità, perché si trovano condizionate economicamente, socialmente, culturalmente, psicologicamente. È più facile dire “sbrigatela tu, fai l’eutanasia”, tanto poi non se ne parla più, tanto non ci tocca da vicino. È una società che da una parte esprime della solidarietà, dall’altra evoca principi di un puro individualismo deresponsabilizzante. C’è poca attenzione, per esempio, verso questioni come dare un minimo reddito alle famiglie, ai soggetti che si trovano ai margini, come i malati o i disoccupati”.
Fino a che punto è giusto curare e quando invece si scade nell’accanimento terapeutico?
“Nel caso dell’accanimento terapeutico, anche la Chiesa è contraria a continuare delle cure che si sa non avranno nessun effetto. Lo stesso Giovanni Paolo II, a un certo punto, ha chiesto di essere lasciato morire in pace: ma quella non è eutanasia, significa che c’è un decorso naturale. Se non c’è nessuna speranza e la persona desidera morire con tranquillità senza subire degli interventi lesivi, è giusto rispettarne la volontà. Anche qui si tratta di parlare caso per caso, bisogna contestualizzare certe situazioni”.
Ma si può parlare di accanimento terapeutico nei casi di nutrizione artificiale? È interrompendo la nutrizione artificiale che è morta Eluana Englaro e prima di lei c’è stato il caso di Terry Schiavo negli Stati Uniti. E spesso, quando si stacca il sondino, non si assiste a una “buona morte”, perché è una morte per fame e disidratazione.
“Se la persona è cosciente e c’è la possibilità di un recupero, credo che la nutrizione artificiale abbia un senso. Ma se non c’è nessuna speranza, se produce solo sofferenza, no. Una volta non esisteva la nutrizione artificiale. Navighiamo in una realtà che è per tutti nuova, di cui nel passato non c’è esperienza. Sono tutte problematiche che ora vengono alla luce per le conoscenze scientifiche, per la tecnologia, perché prima una persona in stato vegetativo sarebbe morta. Per quanto riguarda Eluana, secondo me in quel caso c’era un certo accanimento terapeutico. Altri non erano d’accordo. Si tratta di situazioni che implicano medicine e dove non ci sono idee chiare. Bisogna lasciare un margine di libertà ogni volta che non siamo sicuri al 100%. L’accanimento terapeutico non va bene, l’eutanasia nemmeno, ma dobbiamo saper applicare questi principi alle situazioni concrete e capirle di volta in volta, con prudenza, senza assolutizzare. Per noi cristiani la vita terrena non è tutto, perché noi crediamo in una vita eterna: ovviamente questo non ci dispensa dall’aiutare la vita, dall’aiutare le persone che si trovano in difficoltà. Però credo che non possa essere un criterio guida aiutare qualunque cosa che viva: un minimo di dignità del vivere ci vuole”.
Dignità del vivere?
“Lo scopo è sempre in funzione della vita, ma la persona deve veramente vivere, deve esserci un minimo di comunicazione. Quando si affrontano argomenti di questo tipo non ci sono molte certezze. In questo campo c’è molto da confrontarsi. È una ricerca che bisogna fare tutti, ognuno con le proprie competenze, con le proprie sensibilità, ma senza scontri, perché sennò diventa un fatto ideologico e non la soluzione di una questione realmente umana. Nelle battaglie ideologiche l’uomo scompare perché non si tiene più conto della realtà delle singole persone”.
Crede che una legge sul testamento biologico possa essere una soluzione per i casi in cui il paziente è effettivamente e irreversibilmente incapace di esprimere la propria volontà?
“Sì, con molta cautela penso che se ne potrebbe discutere. Se non c’è consapevolezza, se non c’è speranza, potrebbe essere utile. Bisogna però mettere dei paletti per evitare prevaricazioni e abusi perché talvolta ci possono essere interessi anche per la vita o la morte di una persona. Se una legge mette dei paletti chiari, io penso che soprattutto contro l’accanimento terapeutico si possa esprimere il proprio parere”.