Dopo avere a lungo vagato e dopo avere a lungo pellegrinato da un partito all’altro, Leoluca Orlando ha finalmente riconquistato una poltroncina sulla quale impancarsi per riproporre al mondo le sue lezioncine su mafia, antimafia e moralità. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, lo ha nominato presidente di una commissione parlamentare sui mali passati, presenti e futuri della sanità.
Compito dei commissari sarà, secondo la legge istitutiva, quello di capire le ragioni di ritardi e inefficienze, di ruberie e collusioni, di sprechi e privilegi. Conseguentemente il presidente Leoluca Orlando potrà interrogare medici e infermieri, barellieri e professoroni; potrà acquisire carte e documenti, fascicoli e faldoni, cartelle cliniche e referti di laboratorio; e se insorgeranno zone d’ombra potrà inchiodare chiunque alle proprie responsabilità. Perché la commissione avrà i poteri d’inchiesta attribuiti dalla Costituzione alla magistratura. Immaginate dunque la gioia di Orlando: se un testimone non si presenterà nei tempi e nei modi stabiliti, lui potrà ordinare ai carabinieri di trascinarlo con la forza al suo cospetto e se un indagato non darà in quattro e quattr’otto una spiegazione delle sue malefatte lui potrà anche spedirlo in gattabuia nella più vicina casa circondariale. “Manette, manette…”, sentenzierà con l’occhio compiaciuto di chi crede di essere venuto al mondo per salvare il mondo dai suoi peccati.
Sarà, insomma, un trionfale ritorno al passato. Dopo anni di astinenza tribunizia – quando si è proposto come presidente della Vigilanza Rai è riuscito a raggiungere miracolosamente l’unanimità dei dissensi – l’onorevole Orlando riconquista la possibilità di rientrare con i suoi metodi nel teatrino della politica: ritornerà a splendere il teorema del “sospetto come anticamera della verità” e, col sospetto, tornerà anche la mai sopita vocazione a riaprire le galere da destinare, possibilmente, a tutti gli avversari politici. Perché, anche se gli anni passano e non ci sono più i giornalisti che lo inseguono per strappargli una foto o un’intervista, lui rimane pur sempre l’eroe di una histoire évenémentielle, come dicono i francesi: di una storia che non può più sorprendere. Ricordate i suoi anni da sindaco quando voleva trasformare Palermo in un immenso Ucciardone? Ricordate la spavalderia con la quale ebbe l’ardire di sputacchiare sul mite Leonardo Sciascia, colpevole di averlo definito un professionista dell’antimafia, o le parole gaglioffe con le quali accusò Giovanni Falcone di nascondere le prove nei cassetti?
Bisognava viverli quegli anni torbidi, quando il “ribelle” Orlando, col ciuffo sudaticcio eternamente appiccicato sulla fronte, saltellava da un capo all’altro del continente e nessuno trovava mai il coraggio di contestargli gli azzardi amministrativi, non ultimo quello di avere inzeppato il Comune di quasi ottomila precari con conseguenze disastrose per tutta la città, ancora costretta a vivere, dopo tanti anni, in una fragilità di bilancio e di servizi.
Si dirà: ma chi può oggi avere paura di Orlando? Onestamente nessuno. Le sue giaculatorie appartengono ormai al folklore di Palermo, come i gatti della Vucciria. Ma c’è un rischio. “I gatti tornano sempre”, avvertiva Garcìa Màrquez nell’Autunno del Patriarca. E come dargli torto? Sul delicatissimo terreno della sanità cominciano ad esercitare il proprio narcisismo non uno, ma due moralisti di professione: un magistrato che arde dalla voglia di esplorare tutti i poteri e i piaceri della politica; e un uomo politico che non vede l’ora di esplorare tutti i poteri e i piaceri della magistratura. Non c’è da stare allegri.
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