La pandemia ha rotto gli schemi, ma siamo noi a pagare e a raccogliere cocci poco consolatori. Nel 2020 il Covid-19 è costato agli italiani 5.240 euro a persona; secondo il report Il debito pubblico italiano e il Covid-19 della Fondazione Nazionale Commercialisti, nel 2021 il debito pro-capite aumenterà di altri 2.372 euro.
Dopo più di un anno di pandemia, le analisi di tipo economico-finanziario restano incerte anche a livello internazionale. Le nuove mutazioni del virus e l’alto tributo di vite umane destano preoccupazione, nonostante la crescente copertura vaccinale. I recuperi economici divergono da settore a settore, e riflettono, in parallelo, i costi dei lockdown e l’entità del sostegno politico all’economia nell’ambito degli Stati nazionali.
Le prospettive future dipendono non solo dall’esito della battaglia tra il virus e i vaccini, ma anche da quanto efficacemente le politiche economiche siano in grado di limitare i danni di questa crisi senza precedenti. Secondo il World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale di aprile, quella pandemica è la recessione più profonda dalla fine della Seconda Guerra Mondiale; le conseguenze di quello che gli economisti definiscono uno “shock esogeno” saranno di lunga durata. Le proiezioni per il 2021 e il 2022 sono comunque migliori rispetto a quelle formulate nel precedente WEO nell’ottobre 2020. La revisione al rialzo riflette il sostegno fiscale aggiuntivo in alcune grandi economie, la ripresa alimentata dai vaccini prevista nella seconda metà del 2021, e l’adattamento dell’attività economica alla mobilità ridotta. Rimangono elevate problematicità sulle prospettive, dipendenti dal percorso della pandemia, dall’efficacia delle azioni governative nel sostenere la campagna vaccinica, e dall’evoluzione dei mercati finanziari.
Nella recentissima ricerca Pandemic divergence: The social and economic costs of Covid-19, pubblicata il 17 maggio 2021, gli economisti Levy Yeyati e Filippini provano a fornire una valutazione preliminare delle conseguenze del Covid-19 nel lungo termine. La pandemia ha messo in luce la diversa capacità dei governi di mitigare la crisi sanitaria ed economica, e quindi i suoi costi variano a seconda del paese; il FMI prevede che il PIL mondiale, nel 2024, sarà inferiore del 3% rispetto allo scenario pre-Covid, ma questo numero raddoppia per la parte del pianeta in via di sviluppo.
Allo stress finanziario, nel valutare i danni, bisogna aggiungere le conseguenze dell’eccesso di morti dovuto al Covid-19. Naturalmente, è difficile dare un valore “economico” alla vita umana, ma il disastro conseguito all’altissima mortalità va quantificato. Sebbene appaia disumano, la vita, al di là delle considerazioni etiche, ha un suo valore “statistico” che si colloca tra i 10 e i 7 milioni di dollari per vita nel mondo occidentale. Pur prendendo in considerazione un valore considerevolmente più basso, di 5 milioni di dollari per vita, il dato varia secondo la nazione; il costo relativo alle morti cumulative globali registrate finora ammonta al 16,9% del PIL globale.
Non è da sottovalutare il grande danno all’istruzione. La chiusura delle scuole si traduce in una perdita di capitale umano per il calo sia delle ore effettive di scolarizzazione che dei tassi di mantenimento dell’istruzione stessa. Su scala globale, la chiusura ha colpito 1,6 miliardi di studenti durante il picco della pandemia. Questo dato si rifletterà, nel futuro, in una perdita di guadagni lavorativi nel corso della vita per le fasce studentesche coinvolte pari a 10 trilioni di dollari, ovvero circa il 12% del PIL globale.
Ci sono poi altri indicatori, più difficili da quantificare: la disruption dei posti di lavoro e delle aziende (con la concomitante perdita di capitale umano specializzato per il lavoro, e di capitale sociale e know how per le aziende); il numero di malattie non trattate e non diagnosticate; i disturbi psicologici dovuti all’allontanamento sociale. Secondo gli studiosi, tenendo conto di tutto questo, la stima del costo della pandemia è approssimativamente pari al 100% del PIL globale nel 2019, e questo dato è inferiore a quello reale.
L’ultima previsione è tautologica: le economie più ricche si riprenderanno meglio e più velocemente. Le ragioni sono evidenti: migliore capacità statale, mercati del lavoro più forti, accesso privilegiato ai vaccini, e, da ultimi ma non ultimi, i “fattori fiscali”: al pari di quanto accaduto per le misure di politica monetaria, gli stimoli fiscali sinora attivati risultano significativamente superiori agli interventi realizzati in occasione di crisi precedenti. Nell’illustrare le perdite, la contabilità dei costi Covid per paese rivela che, anche se la perdita di produzione nel 2020 è stata maggiore per le economie avanzate, queste saranno capaci di recuperare nel prossimo decennio. Invece, sia all’interno dei paesi OCSE ricchi che nel resto del mondo, le regioni più povere rischiano di soccombere. Niente di nuovo sotto il sole.
Il virus ha messo alla gogna le contraddizioni della nostra società, dai comportamenti individuali ai valori globali, in caduta libera a fronte di ineguaglianze macroscopiche e sfruttamento dell’uomo. Privatizzazioni, devolution, tagli alla spesa sanitaria e sociale, finanziarizzazione dell’economia, fino a un anno fa incidevano “solo” sulla crescita del Paese. Ora la pandemia accelera processi potenzialmente idonei a modificare radicalmente il contesto socio-economico di riferimento. Il primo riguarda la de-globalizzazione. L’incertezza sugli sviluppi dell’emergenza sanitaria e sulle interruzioni delle catene globali di approvvigionamento costituisce un impulso alla “regionalizzazione” delle attività produttive; la crisi ha indotto una contrazione degli investimenti all’estero; crescono, causate da motivazioni quali sicurezza nazionale e tutela della salute pubblica, le politiche protezionistiche. Un secondo processo riguarda l’accelerazione del “FinTech”, fenomeno che ha rivoluzionato il comparto dei servizi di pagamento. Banche e operatori dei mercati finanziari capaci di adeguare i propri modelli di business alle nuove tendenze hanno attivato un’importante innovazione nell’ambito dei servizi offerti e stimolato la crescita dell’utilizzo della tecnologia digitale da parte degli utenti, amplificando, però, il rischio di esclusione dei soggetti che non hanno accesso alla rete o adeguate competenze digitali e finanziarie, mentre si ispessiscono le ombre che velano ogni attività in rete: violazioni della privacy e della sicurezza cibernetica.
Tra virus, povertà e altri disastri, s’introduce un effetto positivo: la pandemia potrebbe accelerare la transizione alla green economy e, parallelamente, lo sviluppo della finanza per la crescita sostenibile: gli investimenti responsabili mostrano tassi di sviluppo importanti, anche se rimangono ancora un comparto marginale.
Questi accadimenti rivestono oggi una importanza storica. Tutti i settori della società civile sono coinvolti in un cambiamento epocale. Il sistema neoliberale è alle corde, inefficace rispetto a una crisi mondiale, duratura, mortale, sconvolgente; se già prima le risposte su lavoro e salute erano carenti, come si prenderà cura dei soggetti più deboli, come creerà nuovo lavoro, come risponderà al crescente sfruttamento innescato dal mondo sommerso della rete?
Chi sconterà queste inadeguatezze? Chi pagherà le spese di questa crisi?
Siamo tutti d’accordo su quanto sia fondamentale evitare il diffondersi del contagio: abbiamo capito che dobbiamo stare a casa, tenerci a distanza dagli altri, metterci la mascherina, lavarci le mani, autodenunciarci se stiamo male. Ma ora, siamo in grado di capire quanto sia importante rispondere alle domande sull’ “altro prezzo” del Covid? Un vecchio adagio, a conforto dei diseredati, recitava “quando c’è la salute c’è tutto”. Quando non c’è nemmeno quella, è giunto il momento in cui manca davvero tutto.
Nel 1979, uno stralunato quanto lucido Enzo Jannacci, la cui poetica dava voce a chi non ne aveva, cantava: “sì, ma qui che l’amore si fa in tre, che lavoro non ce n’è, l’avvenire è un buco nero in fondo al tram; sì, ma allora, ma che gioventù che è, ma che primavera è, la tristezza è lì a due passi e ti accarezza e ride, lei”. Io e te raccontava, un quarantennio fa, le disillusioni di un uomo in un Paese che, mancata l’occasione del rinnovamento, appariva senza prospettive; era un’amara e struggente riflessione politica sulle promesse non mantenute, che aveva molto a che fare con le riforme sempre chieste e mai attuate: dove condusse quel clima, è storia nota; ma era anche una riflessione esistenziale, un implicito interrogativo su come proseguire.
La domanda “chi pagherà i costi di questa crisi” non è retorica. I cittadini potrebbero dare una risposta mediante i social e l’auto-organizzazione, per sostituirsi a chi ha il monopolio delle domande e porre interrogativi seri, diventando interlocutori privilegiati nel policy making, orientando le strategie in merito alle questioni più rilevanti per la società, per una politica più umana e sostenibile. Oppure, possono lasciarsi accarezzare dalla tristezza, e contemplare il buco nero che ha inghiottito la progettualità e le aspettative per il futuro cui tutti hanno diritto, i giovani in particolare.
Non lasciamo che vinca la tristezza.