Da Silvana Saguto alla confisca| Il re delle cave: patto con i boss - Live Sicilia

Da Silvana Saguto alla confisca| Il re delle cave: patto con i boss

La cava Bordonaro

Dalla nuova pretura al velodromo Borsellino: il cemento di Bordonaro era ovunque VIDEO

PALERMO – Dieci anni dopo il sequestro arriva la confisca. Passa allo Stato quasi tutto il patrimonio dell’imprenditore Giuseppe Bordonaro, il “re delle cave”. La sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo ha disposto la confisca, su richiesta del pubblico ministero Calogero Ferrara.

QUI IL PEZZO DI CRONACA

Il procedimento è iniziato nel 2011 sulla base delle indagini della Direzione investigativa antimafia. Il sequestro fu deciso dal collegio presieduto da Silvana Saguto, travolta da un’inchiesta nel 2015 e sotto processo, e cinque anni dopo la confisca viene decisa dalla sezione ora presieduta da Raffaele Malizia.

L’ossatura sono state le sentenze e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Angelo Siino, Salvatore Cangemi e Giovanni Brusca. Giuseppe Bordonaro è stato condannato nel 2007 per mafia a 4 anni e mezzo.

A partire dalla fine degli anni ’80 l’impresa di materiale inerte formalmente intestata a Salvatore Bordonaro, padre di Giuseppe, “era stata sistematicamente favorita da esponenti di vertice di Cosa Nostra” nelle forniture di marmo per gli appalti pubblici. La cava di via Celona, quartiere Cep di Palermo, era in continua attività. Nessun appalto sfuggiva al controllo mafioso, neppure quello per la costruzione della nuova pretura palermitana. E Bordonaro sapeva come ripagare i mafiosi: versando ad esempio somme di denaro a Totò Riina e, dissero in pentiti nel processo chiuso con una condanna ormai definitiva, affidando sub appalti ad imprese vicine ad altri boss, come i Ganci della Noce.

Cangemi ha raccontato di quel regalo da 50 milioni di lire per le commesse ottenute da Bordonaro. Il suo materiale è servito anche per costruire il deposito Amat di via Roccazzo e il velodromo dello Zen intitolato a Paolo Borsellino.

Tra le imprese che vanno in confisca ci sono la Concebi (Palermo), la Red Coral (Roccamena), la Inerti Conglomerati Marmi (Palermo), Atlantide Costruzioni (Marino). E una sfilza di rapporti bancari, case, terreni, polizze, fondi di investimento per milioni di euro.

Tra i beni dissequestrati la società “Palermo Recuperi” già “Palermo Recilyng” con sede a Palermo. La “Palermo Recuperi”, gestita per un periodo dall’avvocato Gaetano Cappellano Seminara (anche lui sotto processo a Caltanissetta) in amministrazione giudiziaria, è stata dichiarata fallita nel 2019 quando era già passata ad una nuova amministrazione.

“Al mio arrivo in azienda – precisa l’avvocato Cappellano – non c’era attività produttiva in corso, essendo state revocate le autorizzazione alla cavazione del marmo, e i dipendenti erano stati licenziati. Siamo riusciti a riottenere il via libera e a richiamare il personale. Addirittura la successiva fase ha registrato l’assunzione di ulteriori nuovi dipendenti per la creazione di una seconda squadra di lavoro sotto la direzione del compianto Gianluca Grimaldi”. 

Di avviso opposto è Salvatore Dolce, consulente ambientale della “Palermo Recuperi” e marito di una delle intervenienti del sequestro ora revocato: “Le autorizzazioni della ‘Palermo Recuperi’ erano tutte vigenti nell’atto di immissione dell’amministrazione giudiziaria, contestualmente la forza lavoro era costituita da più di dieci unità lavorative, il parco veicolare da otto veicoli, c’era l’impianto di frantumazione, oltre 700 mila euro di crediti da incassare, nonché due immobili di proprietà”.

“Limitatamente alla ‘Palermo Recuperi’ – precisa Cappellano Seminara – le autorizzazioni alla data nostra immissione erano vigenti. Non furono più concesse in seguito al diniego dell’ufficio competente della Regione siciliana. Da qui la chiusura. Il mio precedente riferimento era limitato alla cava dove si estraeva il marmo, effettivo core business del gruppo”.

Nel processo penale sono stati assolti tutti gli imputati: Antonino Vernengo, Rosa Francofonti, Antonina Provenzano e Angelo Caruso. Erano difesi dagli avvocati Tommaso De Lisi (che assiste anche la “Palermo Recuperi”) e Angelo Barone. Il giudice dissequestrò l’azienda, ma pendeva sempre il sequestro in sede di misure di prevenzione, oggi caduto. Dietro l’azienda, secondo l’accusa che non aveva retto in sede penale, ci sarebbero stati Francesco Francofonti, già condannato per mafia, e Antonino Vernengo, indagato per lo stesso reato. Da qui l’accusa di intestazione fittizia aggravata dall’articolo 7, previsto quando c’è di mezzo Cosa Nostra, che non ha retto al giudizio dei giudici prima in sede penale e ora in sede di misure di prevenzione. 

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