Cos'è la Felicità - Live Sicilia

Cos’è la Felicità

Senza punto interrogativo. Perché la Felicità (con la effe maiuscola) esiste e non è una domanda. E' un argomento serio che riguarda l'economia, la politica e l'individuo. E poi, naturalmente, la Sicilia.

Parlare di Felicità in un momento storico ed economico come questo appare quasi dissonante, ma la Felicità non è solo un concetto astratto, anzi, è un problema politico, un indicatore economico, cuore di ogni azione, individuale o collettiva.

Argyle, principale studioso di Felicità, la definisce come un senso generale di appagamento complessivo che può essere scomposto in aree quali tempo libero, rapporti sociali, matrimonio, lavoro, salute e autorealizzazione. Felicità, dunque, come appagamento di realizzazione, e quale area, se non quella lavorativa, ha nell’immaginario collettivo la funzione di catalizzatore di tale processo? “Felice colui che ha trovato il suo lavoro; non chieda altra felicità”, diceva Thomas Carlyle. La maglia identitaria è fortemente intrecciata con la dimensione lavorativa, in un oscillare continuo tra “io sono” ed “io faccio”. Joseph Conrad quindi non può che attrarre simpatie quando affermava: “Il lavoro non mi piace – non piace a nessuno – ma mi piace quello che c’è nel lavoro: la possibilità di trovare se stessi”. Il bisogno di realizzazione, dunque, trova nel lavoro il suo mezzo principale di espressione, a cui consegue il sentirsi felici, i cui effetti si distribuiscono a pioggia su tutte le altre aree della nostra vita.

Il ragionamento, ad un livello puramente teorico/astratto, sarebbe impeccabile se non fosse che un altro ospite s’impone sulla scena: la crisi. Discussa, analizzata, sezionata, odiata, parcellizzata, esorcizzata. Un virus che costringe in malattia anche i più determinati. A spada tratta ha sfidato e indebolito i principi di crescita, sviluppo, guadagno, inibendo nella gente la spinta alla progettualità e ridimensionando l’illusione di onnipotenza, e di riuscita. Come ogni burrasca che passa, anche questa lascia i suoi detriti, che si concretizzano in un senso diffuso di impotenza, disorientamento, incertezza sul futuro. Secondo l’ultima rilevazione della Svimez, al sud il tasso di disoccupazione reale è del 25,6%. Rispetto all’anno precedente, il fenomeno è in preoccupante crescita, infatti al sud i disoccupati sono aumentati del +2% (pari a 19.600 unità). La contrazione delle persone in cerca di occupazione riguarda principalmente i più giovani, alimentando la diffusione di sentimenti di scoraggiamento, che possono indurre a sospendere le attività di ricerca di un lavoro.
Ma mentre al centro-nord la perdita di posti di lavoro tende a trasformarsi quasi interamente in ricerca di nuovi posti di lavoro, nel Mezzogiorno solo una minima parte dei neo-disoccupati cerca una nuova occupazione. Per concludere lo scenario “apocalittico”, le ultime stime evidenziano come nel 2012 a Palermo il 70% delle imprese giovanili, femminili e di immigrati nate nel 2011, abbiano già chiuso.

Possiamo pensare, dunque, che la messa in crisi della dimensione identitaria/lavorativa comporti il diffondersi di un sentimento di estraneità rispetto al proprio agire in senso personale e sociale, determinando lo slittamento dell’individuo da regista a spettatore. Il vuoto di progettualità, questo congelamento della capacità del desiderare, può essere messo in correlazione con la precarietà lavorativa odierna, principalmente tra i giovani adulti in cerca di occupazione, la “generazione arresa” come la chiama Lo Piccolo, che, non per mancanza di capacità, sembra aver perso speranza nel futuro.

Questa condizione di criticità investe anche il concetto di Capitale Sociale (Putman, 1997) ovvero quel complesso impalpabile, eppure molto reale, di rapporti fiduciari tra le persone, di valori condivisi, di norme non scritte che contraddistinguono gli appartenenti a uno specifico gruppo (culturale, sociale, etnico, religioso, ecc.) e ne influenzano i comportamenti in senso pro-sociale; e più che mai in Sicilia, la dimensione del Capitale Sociale, e quindi del bene pubblico, è una questione spinosa e delicata. In tal senso, la riflessione di Banfield sull’arretratezza del paese del Mezzogiorno da lui studiato, secondo il quale senza una cultura dell’associazionismo e della cooperazione, d’altra parte, nessuno sviluppo effettivo è possibile, e in cui “nessuno perseguirà l’interesse […] della comunità, a meno che ciò non torni a suo vantaggio personale”, sembra sintetizzare pienamente la questione.

La questione lavorativa in Sicilia va anche contestualizzata all’interno dell’universo di significati sociali che ruotano attorno al concetto stesso di lavoro, la cui dimensione culturale è in parte riconducibile anche a quella di “Pretesa” (nel senso psicologico del termine). Il popolo siciliano sembra colludere con una visione del lavoro come di un qualcosa di estraneo alla persona ed al bene sociale, come un oggetto di scambio contrattuale, che azzera qualsiasi spinta motivazionale autentica, e che inibisce la partecipazione del soggetto al suo stesso agire, negando in tal senso il suo contributo sociale e delegando all’Altro, qualunque assunzione di responsabilità, ed in certi casi anche di colpevolezza. Il “lavoro come pretesa” rischia quindi di divenire uno slogan sociale, humus di clientelismi politici e manifestazioni cittadine, che possono alimentare la sterilità e l’inerzia lavorativa, nonché inibire la progettualità e la spinta motivazionale, in un “annacarsi” continuo di lamentele e ricerche di capri espiatori.

E se crolla la dimensione lavorativa, a rigor di logica con quanto detto sin ora, viene meno anche la dimensione della Felicità: per ogni punto percentuale di disoccupazione in più, il tasso di suicidi nella popolazione, al di sotto dei 65 anni, aumenta dello 0,79%. Diminuiscono i salari, e aumentano il tasso di ansia, di abuso di droghe, alcol, e di depressione. Come si può quindi essere felici se la maggior parte della gente galoppa verso la depressione, che per definizione è l’opposto della Felicità?

Consoliamoci intanto con la considerazione, anche se amara, che per una volta il gap nord-sud si ribalta, mostrando come in Sicilia, rispetto al nord, a fronte di una maggiore crisi economica, vi sia il minor tasso di suicidi (13,2% contro il +35% del nord), nonché un consumo nettamente inferiore di farmaci antidepressivi. Ma come possiamo essere felici, o quanto meno non depressi, se andiamo a leggere le ultime cifre elaborate dal Diste, per conto della Fondazione Curella di Palermo, sull’andamento del Pil? “Dal 2008 al 2013 infatti, in Sicilia il Pil è regredito di 10 punti percentuali contro una media del 6,5% a livello nazionale. Contestualmente il tasso di disoccupazione è aumentato a dismisura toccando il 18.4% e arrivando al punto più alto degli ultimi nove anni. Nell’arco del quinquennio 2008/2012 l’economia siciliana sarebbe dunque regredita ad un tasso cumulato esattamente pari al 10% (-6,5% circa l’arretramento del Pil italiano)”.

Sfida difficile, ma la Felicità, come la speranza, è l’ultima a morire!

Ecco quindi che possiamo far riferimento “al fratello” del PIl, il Fil, ovvero – Felicità interna lorda. “La Felicità Interna Lorda è molto più importante del Prodotto Interno Lordo”, ha sostenuto sul Financial Times il re del piccolo Stato del Bhutan, J. S. Wangchuck. Il FIL misura il benessere dei cittadini attraverso criteri quali qualità dell’aria, istruzione, ricchezza dei rapporti sociali, salute. Il Bhutan, con un Pil pro capite di 1800 dollari, si aggiudica il posto tra uno dei paesi più poveri dell’Asia, ma di contro, secondo un recente sondaggio, è la nazione più felice del continente, e l’ottava di tutto il mondo. David Cameron a tal proposito ha dichiarato: “Il benessere non può essere misurato solo dal denaro o scambiato alla borsa. Riguarda la bellezza che ci circonda, la qualità della nostra cultura e soprattutto la forza delle nostre relazioni. Migliorare il senso di benessere della società, ritengo, sia la principale sfida politica del nostro tempo”. Del nostro tempo e anche di quelli precedenti. Aristotele infatti parlava di “eudaimonia” – la felicità come prosperare umano e scopo di vivere – concetto piuttosto diverso da quello edonistico moderno.

Provocatoriamente il Fil richiama alla mente il “paradosso della felicità” teorizzato da Easterlin, professore di economia dell’università meridionale della California, secondo il quale all’aumentare della ricchezza, il livello di felicità degli individui si riduce.

Quali sono allora gli ingredienti di una Felicità anticrisi? Nonostante la sua veneranda età, il vecchio Freud può venirci in soccorso quando dice: “Come il commerciante accorto eviterà di investire il proprio capitale in un unico ramo, così la saggezza della vita consiglierà forse di non aspettarsi tutto il soddisfacimento da una sola aspirazione. Il successo non è mai garantito, dipende dal concorso di molti fattori, forse soprattutto dalla capacità della costituzione psichica di adattare la propria funzione all’ambiente e di usarlo per trarne piacere”.

L’uomo può trarre la sua felicità da molteplici fonti come l’amore, il lavoro, la famiglia, il successo, la conoscenza, il sesso. Sarebbe stupido affidare tutte le proprie aspettative a una sola di queste fonti, così come l’imprenditore saggio non investe tutti i suoi averi in un solo ramo. Per trarre il massimo dell’appagamento non possiamo aspettarci che il nostro benessere psicofisico derivi da una sola fonte, ma occorre innanzitutto diversificare in modo tale da avere un appiglio nel caso uno di questi rami dovesse rompersi.

Della stessa opinione è il professor Daniel Gilbert, psicologo sociale ad Harvard, conosciuto anche come il “Professor Felicità”, il quale evidenzia dalle sue ricerche come il migliore e più stabile garante di Felicità, più dei soldi e della salute stessa, sia la qualità e la quantità di tempo dedicato alle relazioni amicali e familiari. In definitiva per Gilbert la solitudine affettiva è la forma di povertà più incoercibile e la fonte più acuta d’infelicità umana. Se dunque, secondo la psicoanalisi, la normalità è assimilabile alla capacità di lavorare e amare, e se purtroppo al momento il lavoro è una dimensione precaria, allora una soluzione può essere quella di focalizzarsi un poco di più sull’amore: amore verso se stesso, e verso gli altri. Non è un caso che si assista attualmente ad una maggiore ricerca del contatto con l’altro, di una senso di riconoscimento reciproco all’interno di una comunità, reale o virtuale che sia, familiare o sociale, come riparo dallo sgretolarsi del mito dell’autosufficienza.

In ‘Odissea siciliana’ Francine Prose scrive: “È facile essere felici in Sicilia, ma è un’operazione che richiede un adattamento biologico oltre che culturale: bisogna imparare a vivere il tempo alla maniera siciliana”

Ecco quindi che la Sicilia, nonostante le sue ferite ed i suoi dolori, può offrirsi come luogo nel quale trovare rifugio durante la tempesta economica. Chi meglio di noi siciliani, goderecci nel dna, non può non ritrovarsi nel rassicurante senso di continuità che le tradizioni popolari trasmettono, nel calore delle relazioni e degli affetti amicali e familiari. Quale terra, se non la Sicilia, con tutte le sue bellezze naturali e storiche, non può offrire opportunità diverse per rendere meno doloroso questo momento storico difficile. C’è una Sicilia crepata dalla crisi, ma c’è anche, e per fortuna ancora una Sicilia che resiste, in cui il suo passato e la sua storia, le sue potenzialità e le sue risorse si offrono a tutti noi come ripari in cui rifugiarsi, aspettando che la tempesta si plachi. Parlare di Felicità, promuovere la sua ricerca nella gioia delle piccole cose, della cura di se stesso e nei rapporti con gli altri, non è certamente una soluzione, ma può essere una consolazione. Si può quindi parlare di Felicità in tempi di crisi; anzi, è forse proprio questo quello di cui bisogna parlare.


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