"Cose loro": l'ombra della mafia sui beni confiscati - Live Sicilia

“Cose loro”: l’ombra della mafia sui beni confiscati

La relazione della Commissione Antimafia sui beni confiscati. Fallimenti, ma anche casi diventati 'simbolo'.

Una legge, quella Rognoni-La Torre, lungimirante. Un’intuizione legislativa dallo spirito profondo e positivo sulla gestione dei beni confiscati. Che però si scontra con una prassi stanca e poco felice. Il momento della repressione è severo e preciso, invece la fase della restituzione dei beni strappati alle mani infide del clan mafiosi fa i conti con “l’improvvisazione delle istituzioni” e “la farraginosità della burocrazia”.

Beni confiscati, l’inchiesta

La relazione della Commissione Regionale Antimafia, presieduta da Claudio Fava, sui beni sequestrati e confiscati in Sicilia accende i riflettori su alcune incapacità e opacità che investono la gestione di un patrimonio imponente. Alto è il tasso di mortalità delle aziende. Come se il momento della confisca e quindi di allontanamento dalla gestione criminale invece di diventare porta di rilancio e rinascita diventasse la condanna a morte. Con la conseguente perdita di centinaia di posti di lavoro. E se ci sono esempi positivi e virtuosi, per la stragrande maggioranza delle volte il merito va attribuito alle capacità degli amministratori giudiziari. Che lottano ‘in solitaria’ contro ostacoli paradossali e paletti sull’accesso al credito. L’Agenzia in molti casi è lontana. E compare solo quando la confisca diventa definitiva. E molte volte si trovano scatole vuote.

Focus su Catania

Catania è stato un terreno molto fertile per l’inchiesta dell’Antimafia regionale. Tra i tornanti dell’Etna e gli agrumeti di Palagonia si sono svolte ‘alcune’ trasferte della Commissione che ha potuto visitare alcuni “tesori” immobiliari strappati a Cosa nostra in alcuni casi vandalizzati, abbandonati e altre volte ancora “nelle mani” di coloro a cui formalmente erano stati sequestrati. Scoperte fatte solo grazie al lavoro di alcune associazioni che dopo la pubblicazione del bando dell’Agenzia per l’assegnazione diretta di alcuni beni ha cominciato a lavorare per poter effettuare alcuni sopralluoghi. E così si arriva a Gravina di Catania nella villa di Maurizio Zuccaro abitata fino a poco tempo fa. Oppure all’agrumeto di Palagonia sequestrato nell’inchiesta Iblis ancora ‘coltivato’ dai vecchi proprietari. 

Dalla villa degli Zuccaro all’agrumeto di Palagonia

Le audizioni su questi due casi lasciano un pizzico di amarezza. 

Angelo Bonomo è il coadiutore dell’Agenzia per l’agrumeto di Palagonia: “Era morto il vecchio coadiutore da un anno e non c’era stata la possibilità di fare il passaggio dei beni… si tratta di beni che se qualcuno non mi indica precisamente dove si trovano, non lo posso certo fare io, io sono un commercialista… per cui ho mandato una PEC al comune di Palagonia e per conoscenza anche all’Agenzia con la quale chiedevo l’ausilio di un tecnico che mi accompagnasse….”

Il responsabile della sede di Reggio Calabria dell’Agenzia Nazionale per i beni sequestrati e confiscati parla invece del caso del compound immobiliare degli Zuccaro. “Per quanto riguarda il caso specifico, questa verifica dello stato occupazionale dei beni in Gravina di Catania, quindi parliamo della confisca Zuccaro, è stata richiesta in un primo momento al Comando della Polizia municipale di Gravina ma non ha sortito effetto; in un secondo momento è stata fatta al comando Compagnia Carabinieri di Gravina di Catania che, tramite il Comando stazione, ha provveduto a effettuare il sopralluogo nel febbraio del 2020. L’esito di questo sopralluogo, per un “corto circuito”, diciamo, di comunicazione, non è pervenuto in Agenzia. L’Agenzia ha reiterato la richiesta di sopralluogo che è stata poi effettuata i primi giorni di ottobre…”

Da queste dichiarazioni si percepisce quello che la Commissione – in apertura di relazione – definisce “improvvisazione delle istituzioni”. 

Riela, il fallimento del sistema

L’azienda Riela è stata forse una delle prime realtà imprenditoriali ad essere sequestrata. L’impresa di trasporti avrebbe potuto sopravvivere, ma invece è stata soffocata e travolta da un meccanismo perverso. Lo Stato ha tolto l’azienda alla mafia. E la mafia ha pensato bene di farla fallire. “La vicenda giudiziaria del gruppo ‘Riela’ è uno dei molti episodi di inquinamento mafioso del settore degli autotrasporti nella Sicilia Orientale. E anche in questo caso piuttosto che subire rassegnati il sequestro e la confisca, la mafia decide di riappropriarsi dell’azienda perduta ricorrendo ad ogni mezzo, o – in subordine – di farla a pezzi”, si legge nella relazione. Come è andata? “A determinare il definitivo collasso del gruppo ‘Riela’ è stato proprio il debito di oltre 6 milioni di euro contratto con il consorzio Se.Tra., la società farlocca messa in piedi dagli stessi fratelli Riela. Come dire: lo Stato ci toglie l’azienda? E noi la facciamo fallire!”. Ma oltre il danno c’è stata la beffa per i lavoratori, come spiega Pina Palella della Cgil alla Commissione. “Quando poi si arrivò alla fase della liquidazione, perché non c’erano più commesse, non c’era la possibilità di andare avanti per la condizione debitoria dell’azienda, alcuni lavoratori decisero di formare una cooperativa… con l’intenzione, così come consentiva la norma, di avere attribuito il bene”. Ma “l’Agenzia non parlerà mai con i lavoratori”. 

Il caso La.Ra.

Un altro fallimento del sistema di gestione dei beni confiscati si chiama La.Ra., una società di Motta Sant’Anastasia che aveva tutte le carte in regola per resistere. Ma quando metà delle quote confiscate tornano  nella mani della famiglia La Mastra è ormai impossibile resistere allo tsunami. Non è servito l’impegno dei sindacati e dei lavoratori e nemmeno l’istituzione di un tavolo in Prefettura per evitare il collasso della società. “Quando, purtroppo per la La.Ra. arriva la sentenza che restituisce, ahimè, il cinquanta per cento delle quote societarie ai figli di La Mastra, ritenendo che queste somme non abbiano origine mafiosa. Da quel momento in poi l’Agenzia ha interrotto il percorso”, racconta Pina Palella. 

Geotrans, best practice

Ma non ci sono solo fallimenti da raccontare. A Catania Geotrans è diventata un simbolo. I lavoratori dell’azienda di trasporti sequestrata ad Enzo Ercolano sono riusciti a non soccombere nonostante i tentativi del boss di Cosa nostra. Che con un piano certosino ha svuotato il portfolio clienti dell’azienda trasferendolo in una cooperativa creata ad arte (e poi finita anch’essa sotto sequestro). “C’erano le telefonate di Ercolano che aveva messo in campo questa nuova azienda e tutti i clienti li dirottava in questa nuova cooperativa. Noi ce ne siamo accorti perché ad un certo punto si era creata una certa confusione nei clienti che chiamavano la Geotrans e cercavano Ercolano da noi…  Da lì io contattai i magistrati”, racconta Luciano Modica, amministratore giudiziario di Geotrans. 

I lavoratori della Geotrans (che hanno costituito una cooperativa) adesso aspettano di completare l’iter che gli permetterà di diventare i proprietari di fatto dell’azienda che una volta è stata di Ercolano. Si attende il ‘nulla osta’ dell’Agenzia dei Beni Confiscati. Questa è forse lo schiaffo più violento che si possa dare a Enzo Ercolano, condannato nel processo Caronte per mafia. 

Le conclusioni della Commissione

Al termine dell’inchiesta la Commissione chiede una rivisitazione del ruolo dell’Agenzia e anche della Regione Siciliana nella gestione dei beni confiscati. Serve per la commissione un cambio di rotta. Ma radicale.

L’analisi è lucida. “È umiliante che i lavoratori di aziende confiscate, quando decidono di rischiare in proprio per unirsi in cooperativa e chiedere in comodato quel bene, siano costretti ad attendere anni – spesso incomprensibilmente – affinché quel percorso trovi sbocco. 

È inconcepibile che ville e casali confiscati definitivamente da lustri siano ancora nella disponibilità dei mafiosi ai quali erano stati tolti, in un imbarazzante rimpallo di responsabilità fra Agenzia, amministratori giudiziari, forze dell’ordine, enti locali e prefetture per attivare le procedure di legge al fine di sgomberare quei beni. Abbiamo raccolto, nella denunzia di alcune volenterose associazioni, la storia di palazzine ed appartamenti confiscati e mai liberati da dieci o quindici anni!

È desolante vedere aziende chiudere, terreni agricoli marcire, edifici ridursi in macerie per un difetto di progetti, risorse, buon senso. Ogni bene confiscato e perduto è una vittoria per la mafia. Ma dircelo, o raccontarlo nei convegni, non è più sufficiente”.

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