Colui che scrive, il mafioso, l’amico di Totò e del giaguaro, colui che non rispetta il lutto, né la grazia, un anno fa, scriveva: “Totò Cuffaro è stato per molti versi un siciliano tipico. Convinto – in ottima o in pessima fede – della supremazia del favore, della preminenza del rapporto personale. E’ un complesso di atteggiamenti che i siciliani, sbagliando, chiamano “amicizia”. Comprende il disinteresse e l’interesse. E’ la seconda pelle della politica, come dei rapporti di tutti i giorni: da Palazzo d’Orleans, all’ufficio postale. Se c’è una cosa che proprio si può imparare da questo tramonto cuffariano è la necessità di cambiare pelle, di tagliare un legame profondo con noi stessi. E che sia una rivolta di sostanza e non di facciata. Non soltanto la mafia è esecrabile e punibile, nel codice della nostra identità (e tutto ciò che è mafia è davvero esacrabile). Saremmo troppo indulgenti nel continuare a ritenere accettabili comportamenti deviati e favoreggiamenti semplici, solo perché non sono Cosa nostra”.
Di recente: “Salvatore Cuffaro è in carcere. E’ colpevole. E’ nel posto che spetta ai colpevoli. Non solo. E’ colpevole di una colpa gravissima che getta un’ombra tremenda sulla Sicilia e sul suo percorso personale. Dal punto di vista politico e morale, la censura è sacrosanta, la rabbia degli onesti è legittima, giusto è lo sgomento dei siciliani sinceri, che amano la loro terra”.
Sapevo perfettamente che avrei sollevato un vespaio col pezzo su Sonia Alfano. Sapevo perfettamente che avrei ricevuto insulti personali e professionali. E non è che sia bello prendere schiaffoni dai lettori, ma il rischio era calcolato e sono andato a piedi uniti contro il destino. Forse, il compito di un semplice giornalista è umilmente questo: non schierarsi dietro la gente con i cartelli, dall’una o dall’altra parte. Cercare una via diversa, che conduca a riflessioni magari scomode.
Cosa non ho detto. Non ho mai detto che Totò Cuffaro e Beppe Alfano sono la stessa cosa. Non ho mai detto che Totò Cuffaro è una vittima del sistema. Non ho detto che sia illegittima la soddisfazione civile per il compimento della giustizia. Non ho mai offeso Sonia Alfano. Non ho mai offeso i figli delle vittime di mafia.
Cosa ho detto. Ho scritto una sorta di lettera aperta a Sonia per chiederle di avere rispetto umano: di pensare che c’è un’altra figlia innocente che soffre, di considerare il dolore dall’alto della sua esperienza e di non dimenticare le sue mutilazioni. Ovvio, non è la stessa storia, non è nemmeno lo stesso pianto. Io però penso che il senso della comune appartenenza al dolore, come esseri umani, possa farci incontrare, anche se i pesi sulla bilancia non si somigliano per colore e forma. Tuttavia, solo Dio e chi regge davvero la soma di quei pesi conosce il vero valore della bilancia. Tutto qui. Sono una iena perché inorridisco davanti al giubilo incontinente per la sofferenza di un uomo in catene e della sua famiglia? D’accordo, mi tengo la nomina. Voi siete esseri umani. Voi che celebrate un rabbioso sentimento di vendetta e avete bisogno di chiamarlo col nome della giustizia. E un’altra cosa mettiamoci sulla bilancia della mia depravazione: il figlio di una vittima di mafia non è migliore o più buono in partenza del figlio di un mafioso, almeno per me. Dipende tutto dai passi, dalle scelte e dal percorso personale. Ognuno ha il diritto di essere valutato per le sue decisioni consapevoli.
Poi giratela come volete, cari lettori. Potete pure ritenere che io sia un amico della mafia o di Cuffaro. Non m’importa, c’è un cammino che parla anche per me. E datemi perfino del cretino. Come altrimenti definiremmo uno che ha pietà del potente in catene e prende i pomodori in faccia in cambio di zero, quando il potente non conta più nulla?