CATANIA. “Era l’unica sentenza possibile nel rispetto della legge, davanti a un reo confesso non si poteva far finta di niente”. Lo afferma l’avvocato Fabio Repici, che ha tutelato gli interessi dell’ex consigliere del Csm Sebastiano Ardita parte civile nel processo bresciano che ha visto la condanna dell’ex magistrato Piercamillo Davigo per rivelazione del segreto d’ufficio rispetto ai verbali in cui Piero Amara ha svelato i nomi dei presunti appartenenti alla fantomatica loggia Ungheria.
Per il legale “c’è stato un tentativo di golpe ai danni del Consiglio superiore della magistratura e il consigliere Ardita era stato visto come uno dei pochi ostacoli” contro cui scagliarsi. “Oggi bisognerebbe ringraziare Ardita per aver mantenuto la dignità dell’Organo di autogoverno della magistratura, senza un ruolo nel quadriennio e senza l’impegno di pochi altri di tutela delle istituzioni, oggi probabilmente se quella operazione fosse riuscita ci troveremmo davanti a una giustizia più sbandata” conclude Repici.
La ricostruzione dei fatti
Un anno e 3 mesi con la sospensione condizionale della pena, la non menzione della condanna nel casellario giudiziale e la concessione delle attenuanti generiche. Dopo oltre un anno di dibattimento si è concluso così il processo in cui Piercamillo Davigo è finito imputato a Brescia per rivelazione del segreto d’ufficio in merito ai verbali di Piero Amara su una presunta Loggia Ungheria. Verbali che in pieno lockdown il pm milanese Paolo Storari gli aveva consegnato per autotutelarsi, a suo dire, dalla inerzia dei vertici del suo ufficio.
La sentenza è stata letta nel pomeriggio di ieri dal presidente della prima sezione penale del Tribunale Roberto Spanò, che ha accolto la richiesta dei pm Donato Greco e Francesco Carlo Milanesi, titolari dell’inchiesta con il Procuratore Francesco Prete: avevano proposto di condannare Davigo a un anno e 4 mesi. Il collegio, che depositerà le motivazioni in 30 giorni, ha anche disposto il risarcimento di 20 mila euro che l’ex pm di Mani Pulite dovrà versare a Sebastiano Ardita, il suo ex collega a palazzo dei Marescialli e co-fondatore della corrente Autonomia e Indipendenza che si è costituito parte civile ritenendo di essere stato danneggiato dalla vicenda. “Davigo? L’ho sentito e mi ha detto “faremo appello. E’ evidente”, ha commentato il difensore Francesco Borasi, aggiungendo: “è stato fatto un errore in fatto e in diritto. La serenità è totale e faremo appello. Il dibattimento aveva dimostrato cose completamente diverse”. Per il legale di Ardita, Fabio Repici, invece, “la condanna non era imprevedibile. Solo in questo Paese sbandato e in questo tempo sbandato – ha proseguito – si poteva dubitare che un reo confesso non venisse condannato solo perché ha indossato la toga”. L’avvocato ha inoltre voluto precisare che “c’è un discorso molto lungo, che sarà affrontato nella sede opportuna” e che riguarda le “motivazioni che portarono all’invenzione delle dichiarazioni di Piero Amara” principale indagato in una inchiesta, chiusa da poco a Milano, in cui risponde di calunnia nei confronti di parecchi esponenti del mondo delle istituzioni, economia, magistratura e forze dell’ordine, tra cui anche lo stesso Ardita.
Durante il processo, cominciato il 20 aprile dell’anno scorso, sono stati citati come testimoni, non solo l’ex vicepresidente del Csm David Ermini, e una serie di consiglieri di allora, ma anche alcune delle toghe – ora in pensione – di primo piano come il pg della Cassazione Giovanni Salvi e l’ex procuratore di Milano Francesco Greco. Oltre, ovviamente, al pm Storari, che invece è stato assolto definitivamente per la vicenda. A rinviare a giudizio Davigo, proprio il giorno del trentennale di Mani Pulite, il pool di cui fu uno dei pm, era stato il gup bresciano Federica Brugnara che aveva ritenuto fosse necessario il vaglio di un collegio per stabilire se, come aveva ipotizzato la Procura, l’ex componente del Consiglio Superiore della Magistratura era persona autorizzata a ricevere quei verbali così delicati e coperti dal segreto istruttorio e se poteva anche divulgare il loro contenuto ai colleghi e al presidente, dell’epoca, della commissione antimafia Nicola Morra. Come recita il capo di imputazione, Davigo, dopo aver ricevuto dal pubblico ministero quegli atti, “violando i doveri” legati alle sue funzioni e “abusando delle sue qualità” li avrebbe diffuso ad altri componenti di Palazzo dei Marescialli e a Morra in modo “informale e senza alcuna ragione ufficiale”. Cosa che lui ha sempre ritenuto lecita ma che ora gli è costata una condanna in primo grado.