PALERMO – L’ultimo esercito di prestanome è venuto fuori con l’inchiesta che venerdì ha coinvolto un notaio, un ex direttore di banca e un avvocato. Si sarebbero messi a disposizioni, a vario titolo, così sostiene l’accusa, di gente con un passato e un presente che puzza di mafia e malaffare. Le “teste di legno” si presentano nell’ufficio di una banca o nello studio di un notaio. Firmano atti di compravendita di immobili – ville, case, terreni, magazzini – o si intestano la titolarità di aziende, molte delle quali finiscono sotto sequestro.
I professionisti sono nella migliore delle ipotesi troppo distratti o, nella peggiore, collusi. A questa secondo categoria apparterebbero il notaio Tommaso Drago e l’ex direttore di una filiale della Banca di Roma, Massimo Sarzana raggiunti due giorni fa da un avviso di garanzia. Il primo per un falso e il secondo addirittura per concorso esterno in associazione mafiosa. Di favoreggiamento risponde anche l’avvocato Nico Riccobene che avrebbe fatto da cerniera fra il boss Vincenzo Graziano, detenuto al 41 bis, e gli uomini che ne gestivano gli affari.
Il punto è che, nonostante i sequestri, di soldi della mafia in circolazione ce ne sono parecchi. L’inchiesta dei finanzieri del Nucleo di polizia valutaria si è concentrata sul patrimonio immobiliare dei clan Galatolo, Madonia e Graziano. Cognomi che hanno fatto la storia di Cosa nostra. I capi famiglia sono sepolti in carcere, ma i parenti rimasti fuori si danno un gran da fare per preservare e investire le montagne di denaro accumulate costruendo palazzi in mezza città.
Gli affari loschi non sono solo quelli del mattone. Ci sono mafiosi che dalle periferie muovono verso il centro, oppure nel salotto della città ci vivono già. Affidano i loro soldi all’esperienza di consulenti. Professionisti dalla apparente specchiata carriera che dispensano consigli su come investire ed evitare la mannaia dei sequestri. Perché gli investitori sono spesso parenti di uomini di mafia finiti in carcere. Figli, zii e cugini di boss che fanno parte di clan storici come quelli di Resuttana, San Lorenzo e Porta Nuova. Hanno aperto attività commerciali o rilevato quelle già esistenti, alcune nelle le vie chic della città. Bar, tabaccherie, imprese edili, ditte di trasporto e agenzie di servizi sono gli investimenti preferiti dagli uomini dei clan.
Ecco il quadro dell’economia sommersa di Palermo. Un’economia ammorbata dalla mafia. Qualche colletto bianco è stato smascherato, altri continuano a muoversi sotto traccia, allettati da laute parcelle. Non è un caso allora che di fronte alla mole di sequestri antimafia resti inapplicato l’obbligo dei professionisti iscritti agli ordini di segnalare operazioni commerciali e finanziarie sospette. In Italia esiste l’Uif, l’unità di informazioni finanziarie a cui dovrebbero pervenire le segnalazioni che, però, si contano sulle dita di una mano. Nessuno o quasi segnala. Eppure basterebbe, norma alla mano, avere “ragionevoli motivi per sospettare che siano in corso o che siano state compiute o tentate operazioni di riciclaggio”.
Accanto alle figure di anziani e giovani sprovveduti pronti a intestarsi un bene in cambio di poche centinaia di euro di recente sono emerse figure di tutt’altro spessore. Come quella dell’avvocato Marcello Marcatajo finito sotto accusa prima di morire per una grave malattia. E poi c’è il sottobosco delle connivenze popolato da commercialisti che si presterebbero al diffuso stratagemma delle false fatturazioni per giustificare le provviste necessarie per comprare e trasferire società.