Dodici anni di pizzo e soprusi | Il caso del cantiere conteso fra i clan - Live Sicilia

Dodici anni di pizzo e soprusi | Il caso del cantiere conteso fra i clan

Storia di un imprenditore stritolato dal racket. La prima volta pagò nel 2003 e fu l'inizio di un incubo. L'ultimo cantiere, a Palermo, finì al centro dello scontro fra i clan di Bagheria e Porta Nuova per la riscossione del denaro.

MAFIA-BLITZ APOCALISSE 2
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PALERMO – Una storia di pizzo e soprusi. Ci sono voluti dodici anni, segnati da continui pagamenti, prima che l’imprenditore decidesse di voltare pagina e denunciare coloro che gli hanno reso la vita un inferno.

Il primo a bussare alla sua porta fu nel 2003 Gino Mineo del clan di Bagheria. Poco prima qualcuno avevano lasciato una bottiglia di liquido infiammabile nell’ufficio del cantiere per la costruzione di trenta villette a Santa Flavia. Quelle villette, secondo i boss, valevano quindici mila euro di pizzo. La trattativa si chiuse con otto mila euro. E così l’imprenditore finì dentro il tunnel del racket. Da allora la visita degli emissari del clan si fece puntuale ad ogni impalcatura piazzata a Palermo e provincia.

Non sfuggì alla regola del pizzo neppure la ristrutturazione di un palazzo di via Sant’Agostino nel cuore della vecchia Palermo. La faccenda aprì un conflitto tra famiglie per la riscossione della messa a posto. Per primo si fece vivo Antonino Zarcone, boss di Bagheria e oggi pentito. Rivendicava il diritto di riscossione visto che bagherese era l’imprenditore che aveva preso i lavori in sub appalto da un altro costruttore. Zarcone ricevette, ha raccontato la stessa vittima, due assegni da sessanta mila euro ciascuno emessi da Giuseppe Di Marco, titolare di un negozio di polli che aveva un debito con il titolare dell’impresa appaltante per l’acquisto di una villetta a Santa Flavia. Anche Di Marco, qualche tempo dopo, sarebbe finito in manette in un blitz antimafia.

L’accordo prevedeva che Zarcone incassasse altri trenta mila in contanti che avrebbe poi girato ai “palermitani”, cui spettava una fetta della torta del racket visto che il cantiere si trovava in città. L’imprenditore, però, non consegnò il denaro a Zarcone. Nel frattempo, infatti, si era fatto sotto un tale “Giuseppe il meccanico”, che era stato piuttosto convincente nel chiedere “trenta mila euro per i carcerati”. “Giuseppe il meccanico” sarebbe stato identificato in Giuseppe Fricano, boss di Resuttana oggi al 41 bis, e titolare di un’officina in via Libertà.

L’imprenditore non aveva battuto ciglio alla richiesta di denaro da parte di Fricano abituato com’era a pagare il pizzo. Lo aveva già fatto, così ha raccontato, nel 2008 “a gente che si presentava a nome di tali Lo Presti” per la tassa di Cosa nostra sulla ristrutturazione di diverse palazzine ai Quattro Canti, alla Vuccuria e in via Garibaldi. Lo Presti è il cognome di una potente famiglia mafiosa della zona di Palermo centro.

Strano, però, nel caso di Fricano, che un mafioso di Resuttana intascasse il pizzo per un cantiere in via Sant’Agostino, e cioè lontano dal suo territorio di appartenenza. Non a caso l’imprenditore si “meritò” il rimprovero dello stesso Zarcone che gli tirò le orecchie convocandolo ad una riunione in presenza di Sergio Flamia e Carmelo Bartolone (entrambi boss di Bagheria, il primo ha scelto di pentirsi). “La ditta era di Bagheria e al clan bagherese doveva essere pagato il pizzo”: questo in soldoni il rimprovero che gli era stato mosso. Cosa che non poteva andare giù ai palermitani. Proprio Zarcone, nel frattempo diventato collaboratore di giustizia, nell’ottobre scorso ha raccontato che “Daniele Lauria, Alessandro D’Ambrogio, Masino Lo Presti e Nicola Milano (boss emergenti e non della mafia palermitana ndr) si erano lamentati pesantemente con il meccanico per l’indebita riscossione non autorizzata”.


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