SAN GIUSEPPE JATO (PALERMO) – Lo tennero prigioniero per 779 giorni prima di strangolarlo. Il suo corpo fu sciolto nell’acido. Giuseppe Di Matteo avrebbe compiuto tredici anni otto giorni dopo il delitto.
“Ti portiamo da tuo padre”, gli dissero il giorno che lo rapirono in un maneggio il 23 novembre 1996.
I boss volevano zittire il padre del bambino, il collaboratore di giustizia Santino Di Matteo. Dopo il rapimento lo consegnarono ai suoi carcerieri. Giovanni Brusca, Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro e Leoluca Bagarella, avevano definito i dettagli in una villetta di Misilmeri.
Di tanto in tanto gli mettevano un cappuccio, lo legavano e lo infilavano dentro il portabagagli di un’auto, per spostarlo in un’altra prigione.
Anche Messina Denaro è stato condannato all’ergastolo. In uno dei suoi interrogatori ha accollato la colpa dell’omicidio a Brusca. Lui, così ha detto, si era limitato a tenerlo sequestrato in provincia di Trapani. Come se fosse meno grave.
L’11 gennaio del 1996 il tragico epilogo nelle campagne di San Giuseppe Jato, in un luogo che oggi ospita il giardino della memoria. Giocavano carte, facevano le grigliate mentre il bambino si spegneva giorno dopo giorno dentro un buco. Che orrore.
“Mi accusano spesso di non mostrare esternamente il mio pentimento, ma io so che per un omicidio come questo non c’è perdono”, ha detto Brusca nel dialogo con don Marcello Cozzi, autore del libro la cui presentazione annuciata a San Giuseppe Jato ha scatenato indignazione e polemiche.
Quando Brusca seppe di essere stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo ordinò di ucciderlo. “Liberatevi del canuzzu, del cagnolino”, disse.
Enzo Salvatore Brusca, fratello di Giovanni, lo teneva per le braccia, Giuseppe Monticciolo per le gambe, Vincenzo Chiodo lo strangolò.