PALERMO- C’è stato un funerale nella parrocchia ‘Madonna della Provvidenza’ che i palermitani chiamano ‘Don Orione’, perché appartiene alla stessa grande famiglia. Padre Mimmo ha benedetto con l’incenso Maria Rosa che fu buona in vita – così raccontano – e valorosa nella morte. Intorno, ci sono le normali lacrime di accompagnamento alle esequie. Piangono in tanti. Maria Rosa doveva essere una donna davvero indimenticabile.
Il respiro di una chiesa è una nota gentile in perenne contrappunto con il caos che c’è fuori. Non hai bisogno di avere un nome e un titolo per ottenere il diritto di cittadinanza. Puoi sederti tranquillo, pensare, pregare. Un foglio con una scritta campeggia all’ingresso: “Servono uova, tritato e latte”.
Don Domenico Napoli, il parroco – quarantottenne calabrese, innamorato del Catanzaro di Palanca e Bivi: don Mimmo per tutti – risponde alle domande di LiveSicilia, nel suo giro per navate e sacrestie. Riflette un attimo: “La cosa che oggi serve di più? La capacità di ascoltare chi sta male, soprattutto per ciò che non dice. In molti vengono per una necessità materiale. Chiedono il pasto caldo, le medicine, la bombola dell’ossigeno. Ma capisci che c’è dell’altro. Una solitudine da accompagnare, una ferita da guarire, un grido a cui dare riparo”. Spesso, sono i sacerdoti gli avamposti dell’ascolto nel frastuono, gli unici rabdomanti di senso. Per questo abbiamo cominciato il viaggio delle sette chiese, per scoprire sorgenti nascoste d’umanità.
In via Ammiraglio Rizzo – sede del ‘Don Orione’ – corpo e anima sono fotocopie della stessa urgenza. “Abbiamo una mensa e mettiamo a disposizione alloggi per dormire. Come ho incontrato Dio? – don Mimmo sorride, dietro la barba – Da ragazzo amavo tanto la musica. E’ perfetta, pensavo: regala un immenso piacere a me ed è di giovamento a tutti. Suonavo il clarinetto in mi bemolle, studiavo al conservatorio ed ero pure bravino.Una sera, nella chiesetta del mio paese, è arrivata la vocazione. Ho guardato con occhi nuovi don Paolo, il nostro parroco. Esiste forse un modo migliore – mi sono detto – per aiutare il prossimo e per prendersene cura, senza togliere nulla al resto? Così, la mia esistenza è cambiata e mi sono fatto prete”. Sulla sua scrivania c’è una foto: “Accanto a me, mia mamma e mia papà, che non c’è più, il giorno dell’ordinazione. Era un grande lavoratore, calzolaio, contadino…”. E una mano sfiora la cornice.
La squadra dei collaboratori è collaudata. Maria arrivò in canonica cinquant’anni fa. Di anni ne aveva trentasette: il parroco di allora la pregò di fermarsi un attimo, lei non è mai andata via. Adesso, si muove col girello, ma è gagliarda e sa ancora amministrare benissimo le pratiche quotidiane. Enzo lavorava per una società di telecomunicazioni: serve Messa, sistema i paramenti sacri, è presente con discrezione. Salvo è l’ombra di padre Mimmo. Benjamin, il viceparroco, è nato in Togo: è qui per amore, non per povertà.
Sono tutti sereni e disponibili ‘i ragazzi del don Orione’; eppure, questa comunità ha dovuto affrontare il dolore. Anzi, l’ha preso in faccia.
Don Franco Galizia – capo veneratissimo della tribù orionina – era un amabile uomo di Dio. L’ultimo giorno di febbraio del 2011, mentre cenava, invitato da una famiglia di fedeli, mormorò: “Vado a prendere un po’ d’aria”. Apri la finestra del decimo piano. E si lanciò giù. Padre Mimmo ricorda l’evento con quieta commozione: “Io sono venuto al posto suo. Avevo parlato con lui proprio quella mattina e successivamente a pranzo. Era allegro come al solito, forse un po’ più taciturno. Perché è successo? Si tratta di un mistero insondabile. La vera domanda, per me resta un’altra: perché don Franco non ha confidato a un amico qualcosa del suo malessere?”. Nessuno ha scordato niente, nemmeno il pianto dell’arcivescovo Paolo Romeo, quasi piegato in due sull’altare alle esequie.
Sta per iniziare un’altra Messa. Un signore con i capelli bianchi pizzica una chitarra. Don Mimmo si congeda con una stretta di mano e l’ennesimo sorriso: “Non suono più il clarinetto, non ho il tempo”. Una donna anziana entra in sacrestia. Mostra i segni di un lutto irreparabile, dignitoso. Parla con una voce che rammenta il silenzio: “Vorrei fissare una celebrazione in memoria di mio figlio. Domenica è il suo anniversario. Manca da dodici anni”.