di Gianantonio Stella sul Corriere della Sera
La mitica Assemblea Regionale Siciliana ne ha fatta un’altra delle sue. Per fregare la Corte costituzionale chiamata a ribadire le incompatibilità che costringerebbero vari deputati regionali a rinunciare ai doppi incarichi, ha votato una leggina: i consiglieri dovranno sì scegliere, ma solo dopo la sentenza finale in Cassazione al termine di un eventuale processo civile. Risultato: dato che in Sicilia ci vogliono in media 1.678 giorni solo per arrivare al verdetto d’appello, potranno tutti finire il mandato senza la seccatura di dimettersi.
Il carico di incarichi (scusate il bisticcio) dei deputati regionali siciliani non è una novità. Benedetti storicamente da privilegi spettacolari, tra i quali a un certo punto spiccava il contributo vacanze per il suocero (58 mila lire: sempre buoni per comprar le sigarette…), i «baroni» del Palazzo dei Normanni erano finiti per l’ennesima volta in prima pagina soltanto poche settimane fa. Grazie alla proposta di un esponente del Pd, Giovanni Barbagallo, di abolire l’accumulo di bonus supplementari dati in aggiunta all’indennità e ai benefit a quelli che hanno qualche carica. Cioè quasi i quattro quinti dei parlamentari isolani, che già incassano (per «nobile lignaggio»…) al netto quanto i senatori di Palazzo Madama. Rileggiamo il Giornale di Sicilia: «Ognuno dei due vicepresidenti incassa una indennità aggiuntiva di 5.149 euro lordi al mese. I tre questori si fermano a 4.962 euro ciascuno. I tre segretari del consiglio di presidenza hanno 3.316 euro e la stessa cifra guadagnano i 10 presidenti delle commissioni. I 23 vicepresidenti delle commissioni si fermano a 829 euro in più al mese mentre gli 11 segretari delle stesse commissioni ricevono 414 euro». Più i bonus ai capigruppo e agli assessori. Bene: in questo contesto già imbarazzante, spiccano i casi di deputati che, in smaccata violazione della legge nazionale, hanno contemporaneamente altri incarichi incompatibili. Esempi? Pino Federico, del lombardiano Mpa, che fa il presidente della «provincia regionale» (variazione delle province, sulla carta abolite) di Caltanissetta. Alberto Campagna, Pdl, consigliere regionale e comunale a Palermo. Davide Faraone, Pd, consigliere regionale e comunale a Palermo. Giovanni Greco, Pdl, consigliere regionale e comunale a Palermo.
Per non dire di Giuseppe Buzzanca, che mentre siede a Palazzo dei Normanni fa anche il sindaco di Messina e si è preso in giunta altri due deputati isolani. Il vicesindaco (nonché assessore alle Politiche Culturali) Giovanni Ardizzone e l’assessore alla protezione civile Fortunato Romano. Ed è proprio intorno a questi due che nasce il caso di cui parliamo. Escluso dall’Ars perché primo dei non eletti dietro Ardizzone, il casiniano Antonino Reitano va dall’avvocato Antonio Catalioto e presenta un ricorso: l’articolo 62, comma 3, della legge regionale 29/51, prevede infatti «l’incompatibilità del Deputato regionale con la carica di sindaco o assessore dei comuni con popolazione superiore a 40 mila abitanti o presidente ed assessore provinciale». Parallelamente, il legale presenta un ricorso identico contro Romano per conto del primo dei non eletti del Mpa, Santo Catalano.
Mesi di attesa e finalmente, alla fine del gennaio scorso, il Tribunale di Palermo decide: i ricorsi non sono manifestamente infondati. Meglio chiarire la faccenda una volta per tutte girandola alla Corte Costituzionale. A Palazzo dei Normanni sbuffano: vuoi vedere che la Consulta spazza via per sempre la comodità di tenere i piedi in più scarpe? Detto fatto, una maggioranza trasversale di destra e sinistra, ritrovando una magica coralità d’intenti assente in tutte le altre questioni, prende in contropiede i giudici costituzionali e allestisce in tutta fretta una nuova leggina. Che sempre in tutta fretta vota e pubblica sulla Gazzetta Ufficiale perché entri in vigore. Cosa di pochi giorni fa. E cosa dice questa leggina? Che «nel caso in cui venga accertata l’incompatibilità, dalla definitiva deliberazione adottata dall’Assemblea, decorre il termine di dieci giorni entro il quale l’eletto deve esercitare il diritto di opzione a pena di decadenza. Ove l’incompatibilità sia accertata in sede giudiziale, il termine di dieci giorni per esercitare il diritto di opzione decorre dal passaggio in giudicato della sentenza». Traduzione: l’Ars si riserva il diritto di decidere chi è incompatibile e chi no (cosa che ha mostrato di guardarsi bene dal fare) ma in ogni caso la decadenza dall’una o dall’altra delle cariche accumulate sulla base della legge nazionale non è affatto automatica.
C’è chi contesta questa procedura da signorotti medievali? Faccia causa. Ma sia chiaro: il deputato regionale condannato a mollare una delle poltrone potrà restare dove sta fino alla sentenza definitiva in Cassazione. Sapete quali sono i tempi della giustizia civile in Sicilia? Lo dice il Presidente della Corte d’Appello di Palermo, Armando D’Agati, nella relazione dell’anno giudiziario: 1.678 giorni. Trentuno più che nel 2007. Quattro anni e mezzo. Ai quali va aggiunto almeno un altro anno per la Cassazione. È vero che, teoricamente, se gli avvocati dei denunciati non facessero ostruzionismo, la procedura potrebbe essere accelerata. Ma non abbastanza da evitare un finale scontato: prima che arrivi la sentenza definitiva, la legislatura sarà finita. E il deputato siciliano grondante di poltrone potrà rivolgere ai suoi compaesani e a tutti gli italiani il suo distinto saluto: marameo.