"Erimo inafabeto" | Terra matta di Vincenzo Rabito - Live Sicilia

“Erimo inafabeto” | Terra matta di Vincenzo Rabito

Ecco uno scrittore con l'inchiostro di Sicilia nel sangue.

INCHIOSTRO DI SICILIA
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Era un ragazzo del ’99, nato a Chiaramonte Gulfi oltre un secolo fa, Vincenzo Rabito che, in età matura, su una vecchia Olivetti, pensando di scrivere la sua autobiografia, racconta in un inverosimile poema la Sicilia con la lingua degli ‘inafabeti’.

Dire che si tratti di una lingua orale sembra di scontata evidenza: nelle mille e ventisette ‘pacene’, con un’interlinea senza respiro, impropriamente rattoppate da continui punti e virgola e, infine, rilegate in sette quaderni con un filo di corda, lo scrittore traduce in una forma possibile la lingua siciliana in lingua italiana.

Si tratta, invero, di un tentativo assai diffuso in chi non ha potuto formarsi una cultura. Eppure, Vincenzo in ‘un’ebica’ miserabile, da garzonello di sette anni già a servizio di un padrone, guardando la sorella scrivere, aveva avuto ‘la voglia di cominciare a fare a, i, u’.

Aveva così composto la prima parola e gli era sembrato di prendere un treno, come ci racconta. E dal suo vagone non era sceso più seppure, solo a trent’anni, riesce a sostenere gli esami di licenza elementare.

Le conservò tutte le sue parole sulle rotaie di una vita ‘descraziata’ in cui ‘il conte del povero non resolta mai’ e in cui la bestemmia rimane unico conforto.

‘Il nostro elimento era la bestemia, tutte l’ore e tutte li momente, d’ognuno con il suo dialetto, che butava besteme alla siciliana, che li butava venite, che le butava lompardo, e che era fiorentino e bestemmiava fiorentino.’ – precisa senza alcun risparmio.

Con questa consapevolezza, soldato appena diciassettenne, racconta la prima guerra mondiale con la virulenta voce degli ultimi come ‘un momento che nessun uomo al monto si avesse potuto fare capace’.

Zappatore di trincee o di fosse per ‘barrecare muorte’, edifica l’inferno con le proprie braccia.

Nella ‘crante vampa’ in cui si era trasformato il Piave, il racconto diventa popoloso, privo di qualsivoglia finzione. Appaiono creature infime, sconfitte: puttane per i bisogni dei soldati, giovani ridotti in agonia, uomini di comando a servizio della morte. Vite pietosamente raccolte dalla penna di Rabito che sarebbero state inghiottite dal nulla della storia.

La narrazione sconfessa ogni superfetazione intellettuale.

Pasolini credeva bene: gli intellettuali hanno la stessa caratura degli uomini semplici. Ciò che sta al centro di questo fluire è tentativo di letteratura, spesso piena di buoni propositi, ma priva del magma della necessità della parola.

E Vincenzo ha necessità di narrare con una lingua possibile.

Dopo venti anni di oblio in un cassetto, miracolosamente e come spesso accade, la sua opera a cui aveva dato il titolo di ‘Fontanazza’ entra nel 2007 nella Collana Supercoralli di Einaudi, con una generosa riduzione, a cura di Evelina Santangelo e Luca Ricci, vendendo ben 17.000 copie.

E quando il suo cuore si fermerà, quel cuore che era stato come una ‘scattiola del Ciovedì santo’, il figlio ‘incegniere’ che incarna il suo riscatto, firma la sua lapide con il titolo di scrittore.

Ma chi è stato Vincenzo Rabito, venuto al mondo con il tanfo della miseria e della morte addosso, tuttavia straordinariamente sopravvissuto, perfino a se stesso, grazie alla tempra della scrittura?

‘Se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darracontare.’ – scrive.

La racconta lui la propria vita, con puntualità in ogni descrizione, incurante del giudizio del lettore. Ha la consapevolezza di essere nel giusto e che vivere non possa essere altro che ciò che sta narrando. In questa particolare certezza esprime l’onnipotenza piena dell’essere figlio della terra matta di Sicilia.

Il suo realismo rende rilevante l’insignificante: è continua reminiscenza, osservazione cinica, devota rassegnazione e, al contempo, rabbiosa e ancestrale rivolta contro la sorte. Insomma, è poesia nella sua forma più nuda.

La parola di Vincenzo apre ferite di commozione, sventra l’abitudine all’incanto, acquista spessore nella consapevolezza della solitudine, rimanendo priva del valore della memoria. La composizione del ricordo è terragna, crudele e fiera, non indulge mai verso la malinconia, né verso una volontà di lasciare eredità d’insegnamenti.

Il diario, difatti, s’interrompe nel 1970 e abbandona il lettore disarmato al rammarico di Rabito per non aver vissuto in un ‘ebica’ migliore che, invece, accoglie i suoi figli.

La narrazione attraversa oltre un secolo della storia d’Italia: la prima e la seconda guerra mondiale con la sua partecipazione alla campagna in Africa, il lavoro in Germania da emigrato, il suo soggiorno in Sicilia nel cui territorio sentimentale emerge una passione mai addomesticata sia nelle espressioni di benevolenza che di maledizione.

La figura femminile in Rabito si trasforma continuamente: dalla venerata madre alla ‘cane’ della suocera che condiziona e avversa un rapporto matrimoniale mai sanato che lo porta a vivere una ‘querra in casa’.

Sul Corriere della Sera, in un articolo del 24 marzo dello stesso anno della pubblicazione, Sergio Luzzatto definisce l’opera un Gattopardo popolare e, ancora, sulla Stampa dello stesso giorno Mario Rigori Stern definisce Rabito un Verga popolare.

Appare chiaro che la critica, al fine di valutare il temperamento narrativo dell’opera, ha tentato di affondare nell’humus intellettuale dell’isola, non centrando, a mio avviso, la vera natura della sua vocazione.

Rabito è un vinto per destino. Un asino da soma uscito dalle pagine verghiane, una povera bestia che, abbattuto dai colpi delle guidalesche, suscita tanta pietà da far dire allo scrittore catanese che sarebbe stato meglio per lui non essere mai nato.

Vincenzo sa che la frusta della miseria è più pesante del nerbo. Per questo motivo non vuole perdere la guerra più importante, quella di esistere e, da zolla viva con la terra in gola, la disossa con le parole, la sputa, perfino, come dopo una bestemmia.

Le sue ‘pacene’ altro non sono che il frutto spontaneo dell’ inestimabile patrimonio della cultura contadina.

La forma è un adattamento che esprime, in maniera definita, la parola della ‘chiazza’, l’affabulazione nella sua piena teatralità con le sue pause, i suoi ammiccamenti, le sue denotazioni.

La lingua di Rabito non è il ‘rabitese’, come qualcuno ha voluto supporre, ma quella dei padri meno colti, più sventurati, più fertili.

Si parla in questo modo nei luoghi non contaminati dal livellamento del consumismo: nelle campagne dell’entroterra, sulle coste dove si arenano le barche buone alla pesca si cela ancora il seme della lingua.

Non v’è intellettuale siciliano che non vi abbia fatto i conti. E, dopo averne appreso il canto, ha saputo trasformare, nell’intimità della confessione narrativa, la stessa parola di Vincenzo in letteratura.

Il suo manoscritto è adesso custodito nell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano su cui splendono due medaglie di merito: il Premio Pieve Saverio Tutino del 2000 e il Premio letterario Recalmare Leonardo Sciascia, ottenuto nell’anno di pubblicazione.

Semplicemente, Vincenzo Rabito aveva nel sangue inchiostro di Sicilia.


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