Riceviamo e pubblichiamo la lettera di Pippo Bellomo sulle famiglie con disabilità
Prendo spunto da un intervento svolto nell’Istituto Riabilitativo Villa Angela di S.Giovanni La Punta, nel Convegno organizzato il 23 febbraio u.s., in occasione del 60° dell’Istituto, e nel ricordo ed in continuità con l’attività del compianto don Ugo Aresco.
Ognuno di noi, ogni famiglia, ogni qualvolta si trova nella condizione di avere diagnosticata una fragilità sostanziale, subisce, oggettivamente, un contraccolpo. Proviamo a pensare a quante ansie, speranze, sogni, una famiglia (una madre, un padre) ripone nella nascita di un figlio tanto desiderato!
Crescere un figlio con disabilità
“Benvenuti in Olanda”, film molto significativo tratto dal libro di Emily Perl Kingsley, con interpretazione di Ivana Lotito, ci parla di due genitori che decidono di fare un viaggio per visitare l’Italia, per visitare le sue bellissime località; ma improvvisamente, mentre sono in volo, la hostess informa i passeggeri che, anziché in Italia, sono costretti ad atterrare in Olanda. La famiglia si sconvolge: “ma come, abbiamo comprato i biglietti per l’Italia?
Il film evidenzia che occorre prendere atto della vita, così come si presenta, facendone tesoro di tutte le opportunità che la Provvidenza ci elargisce. In questo caso, l’Olanda, nuove abitudini, località altrettanto belle, i tulipani, i mulini a vento, artisti come Rembrandt, ed altre attrazioni naturalistiche e artistiche. Cosa significa? Che a volte gli eventi che ci riguardano non sono conformi alle nostre aspettative, ma che tuttavia occorre adattarsi e “vivere” la propria vita nel migliore dei modi.
Solitamente, chi patisce sofferenze o problemi di salute è portato a dare il massimo per i propri familiari colpiti, a comprendere meglio il valore della solidarietà e dell’empatia, sapendosi compenetrare nei problemi di altre famiglie, e di altre sofferenze. Vivere la disabilità non è una disgrazia, ma è un modo diverso di affrontare la vita.
La vita delle famiglie
È chiaro che la vita delle famiglie cambia (ad esempio, gli eventuali viaggi di piacere diventano sporadici o impossibili, come pure incontri e riunioni conviviali fra altre famiglie e amici). Ma – credetemi – la Provvidenza non ci abbandona mai. Se guardiamo gli occhi dei nostri figli vediamo la voglia di affetto che manifestano e l’attaccamento profondo alle persone che li vogliono bene. Non solo ai familiari, ma anche a chi si relaziona con loro empaticamente.
I nostri figli, infatti, più sono voluti bene, più percepiscono di essere amati, meglio stanno. L’amore, la dedizione nei loro confronti, la totale accettazione della loro condizione di fragilità, se non porta alla guarigione o al superamento dell’handicap, diventa un modo indispensabile per renderli indipendenti, quanto più possibile, al punto di attenuare al massimo la loro condizione.
Amore profondo e totale per i nostri figli, e solidarietà e comprensione fra le varie famiglie. Ecco perché l’”imperativo categorico” deve consistere, oltre che nell’ aiuto profondo per i nostri figli, in collaborazione e in sinergia con le Istituzioni Pubbliche e con altre Associazioni, anche in empatia, nella comprensione, e nella reciproca solidarietà.
Dicevo: “non vivere la disabilità” dei nostri figli come una disgrazia. Quante volte sentiamo affermare da alcuni genitori: “Perché è capitato a me”? Ed io rispondo con le stesse parole della compianta Nadia Toffa, – simpatica ed intelligente conduttrice TV – dopo aver appreso di essere stata colpita dal cancro, e di avere conseguentemente, pochi mesi di vita. “Perché è capitato a me? Ma perché doveva capitare ad altri e non a me”?
È la stessa Persona, la stessa Donna che, durante la sua irreversibile malattia, ci diceva di amare la vita, e di non tralasciare amore, gioia e disponibilità verso gli altri, particolarmente nei confronti delle persone che amiamo e che ci amano.
“Se i nostri figli ci vedono tristi”
Vi confesso che quando qualcuno dei miei amici o conoscenti apprende della disabilità di mio figlio, e mi dice: “mi dispiace tantissimo”, io gli rispondo che sono felice di mio figlio e lo amo più della mia vita.
Se i nostri figli ci vedono tristi, anche loro diventano ancora più tristi. Ma se ci vedono felici, loro lo diventato ancora di più. E se loro sono felici, lo siamo anche noi. È un bellissimo circolo di amore, ed anche di speranza.
Speranza che deve indurci sempre a lottare e ad impegnarci perché i nostri figli possano vivere, nella tutela della loro salute, nel rispetto della loro dignità, impegnandoci e lottando perché ad essi, da parte delle Istituzioni, possa essere garantita, integrazione e inclusione.
Però, bisogna prendere anche atto che ci sono tante famiglie che non hanno e non riescono a farsene una ragione della disabilità dei propri figli. Queste famiglie, questi genitori vanno aiutati! Uno spirito di solidarietà e di aiuto reciproco può essere il toccasana! Chi è più forte deve aiutare coloro che hanno più bisogno, che si sentono tristi e depressi.
Empatia ed umana solidarietà, dicevo! Essere sempre disponibili, disinteressatamente, ad una fraterna collaborazione. Non guardare mai esclusivamente al problema dei nostri figli, come fatto isolato! Noi, aiutando i nostri figli, non dimentichiamoci che ci sono tantissimi altri nelle loro medesime condizioni. Con le parole di don Lorenzo Milani, vorrei dire: “ho imparato a comprendere che il problema degli altri è anche il mio problema”.
L’intervento delle istituzioni
Ma la problematica delle persone fragili e con disabilità non può essere sostenuta solo dalle famiglie, ma va affrontata nei vari contesti sociali, nelle Istituzioni, prioritariamente, perché sia garantita loro la dignità e la promozione umana.
La qualità di vita, all’interno di una comunità pubblica o privata, più o meno piccola, si misura, infatti, dall’impegno nell’assistenza ai più fragili, e nel rispetto della loro dignità; perché, l’insieme dei diritti non può essere appannaggio solo di chi sta bene. Pertanto, anche la persona portatrice di handicap dovrà essere facilitata a partecipare, per quanto è possibile, alla vita sociale ed attuare tutte le sue potenzialità.
Come fa una società a dirsi fondata sul diritto e sulla solidarietà, se non dovessero essere riconosciuti i diritti dei più deboli? Come fa una società a definirsi “umana e giusta” se dà spazio soltanto ai membri pienamente abili?
La realtà purtroppo ci dice che non sono stati risolti ancora le situazioni di svantaggio che vivono le persone disabili, e la situazione si aggrava maggiormente quando i disabili raggiungono la maggiore età. Mentre prima infatti, specialmente nel periodo scolastico, i disabili – oltre alle cure della neuropsichiatria e alle terapie e agli interventi idonei – usufruiscono anche dell’insegnante di sostegno e dell’assistente alla comunicazione, appena raggiungono la maggiore età, vanno a finire nella caotica assistenza della medicina mentale, dove gli interventi non sono più specifici, ma pressochè uniformi a tutte le patologie, ed anche alle persone con problematiche di ordine socio-familiare.
Lo Stato, tramite le sue istituzioni, sanitarie, scolastiche, ecc., ai vari livelli, interviene, ma si auspica che la legislazione possa essere aggiornata, snellita, migliorata e ampliata. Anche La Chiesa, in questi anni, ha affrontato con esortazioni, e col volontariato, il problema delle persone fragili, ma occorre che operatori di buona volontà supportino e affrontino più concretamente le esigenze della disabilità. Lavorare coi disabili richiede come requisito fondamentale essere amorevoli: amare le persone fragili con cui si lavora. Il loro è un impegno lavorativo, ma è anche una missione.
A riguardo ho in mente il profondo contenuto delle encicliche di Papa Francesco (“Fratelli tutti”, e “Laudato sì”) e le coraggiose parole di S. Giovanni Paolo II: “Dimostrare alla persona con handicap che noi abbiamo amore per lei, significa rivelarle che ai nostri occhi essa ha valore immenso. Saperla ascoltare, sapere comprenderne i bisogni, condividerne le ansie, avere attenzione e delicatezza nelle varie fasi di accompagnamento alle attività e alle esigenze della vita, anche per rassicurarli sul nostro amore e sul fatto che non saranno esclusi ma considerati come le altre persone”.
Papa Wojtyla conclude ricordandoci che le persone con disabilità sono figlie del Dio Crocifisso, e in quanto tali, a buon diritto, vanno considerati come testimoni privilegiati di umanità”.
Concludo ricordando che la “fragilità”, la “disabilità, hanno bisogno di gesti concreti e comportamenti coerenti. Ma per fortuna ci sono tante persone, tanti professionisti, tanti operatori che dimostrano giornalmente come si possa operare per l’integrazione e l’inclusione delle persone con disabilità; persone che io, da genitore, ringrazio con tutto il cuore.
Ma ancora c’è tantissimo da fare.