"Speriamo che a me mi eviti" | Flamia parla e i boss tremano - Live Sicilia

“Speriamo che a me mi eviti” | Flamia parla e i boss tremano

Il pentimento di Sergio Flamia fa paura. C'è il rischio concreto che piovano gli ergastoli. L'inchiesta dei carabinieri sul clan di Bagheria svela il timore dei mafiosi di essere tirati i ballo dal pentito. Che ha svelato particolari su altri delitti finora irrisolti.

OPERAZIONE RESET - LE INTERCETTAZIONI
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PALERMO – I boss tremano. Il pentimento di Sergio Flamia fa paura. C’è il rischio concreto che piovano condanne all’ergastolo. E il fine pena mai spaventa. L’omicidio di Antonino Canu e la lupara bianca di Andrea Cottone sono i due i fatti di sangue raccontati finora da Flamia. E siamo solo all’inizio visto che il collaboratore di giustizia conosce i segreti di decine di omicidi. Lui che negli ultimi anni ha fatto il doppio gioco: mafioso di giorno e fonte dei servizi segreti di notte. Un pezzo grosso della mafia – era il numero 33 nei pizzini di Binu Provenzano – che nel frattempo vendeva le soffiate. E oggi in tanti tremano per le sue dichiarazioni.

La paura emerge con chiarezza dalle carte dell’ultimo blitz dei carabinieri che hanno fermato i 31 presunti componenti, fra boss e soldati, della nuova mafia bagherese. C’è una frase, in particolare, che fa riflettere. L’ha pronunciata il 15 maggio scorso Pietro Giuseppe Flamia, cugino del collaboratore di giustizia, finito in carcere per estorsione il 4 aprile. Alla moglie riferiva della confidenza ricevuta da Carmelo Bartolone, boss che nei mesi scorsi ha preferito costituirsi quando ha capito che volevano ammazzarlo. Bartolone sperava di essere risparmiato dalle dichiarazioni del nuovo pentito sui vecchi omicidi ancora irrisolti; “…appena gli arrivano tutti i mandati di cattura degli omicidi… meschino Carmelo dice… ‘speriamo che a me mi eviti’… dice… ‘Pietro…e lo capisce cosa è che ho fatto’…”.

A giudicare dalle parole da lui stesso pronunciate, però, anche Pietro Giuseppe potrebbe tremare. Durante il colloquio, meno di un mese fa, tirava il ballo una vecchia storia: “… ora il fatto di Milano… penso che non dirà niente… perché se lui dice… ‘si mio cugino (indicando se stesso ndr)’ … per l’altro deve dire… ‘mio fratello’ (Giovanni Pietro Flamia ndr)… lo deve dire per forza perché sono collegati… accusando a me… deve accusare anche a suo fratello Piero… siccome lui a quest’ora lo sa che andremo assolti…”.

“Penso che non dirà niente”, diceva Pietro Giuseppe Flamia. Si sbagliava perché dei fatti milanesi il cugino collaboratore ha già parlato: “… facendo sempre mente locale e prendendo degli appunti… allora intanto cominciamo… sull’omicidio di Milano… allora io, facendo mente locale, ho ricordato perfettamente che quando sono arrivato io a Milano con mio fratello, con mio fratello Giovanni Pietro, il punto di riferimento era questo ristorante Binario 15 vicino alla stazione centrale. Ricordo che io mentre mangiavo in questo ristorante, dopo mangiato, sono venuti al ristorante mio fratello con mio cugino Pietro Giuseppe… perché il motivo che con mio fratello ero salito a Milano era perché avevamo tutta la biancheria, gli indumenti di Madonia, che l’indomani mattina arrivava Madonia a Milano, Piddu Madonia, dice siccome, dice, già è da un bel po’ di tempo che dovevamo fare a uno, dice ora prima che arrivava lo zio ce ne siamo liberati di questo, finalmente dice l’abbiamo ammazzato. Poi io ricordo che la sera sul telegiornale abbiamo sentito che era stu Di Liberto. Però… lui mi ha detto che era stato lui, ma se hanno partecipato anche altri nell’omicidio io non lo so.”.

Il verbale è pieno di omissis. Nomi e circostanze su cui Flamia è stato fin troppo preciso. Servono, però, riscontri che i militari stanno già cercando.


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