"Forza Italia, c’è stata una metamorfosi?" - Live Sicilia

“Forza Italia, c’è stata una metamorfosi?”

Il gioco: mettere accanto due vignette una ritrae Gianfranco Miccichè e Ugo Zagarella, l'altra Renato Schifani e Marcello Caruso
IL DIEGONALE
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5 min di lettura

Caro direttore, lei è sempre così gentile.

Mi chiede se ho voglia di scrivere qualcosa su Forza Italia e sulla sua metamorfosi.

La ringrazio per l’invito, ma che vuole che ne sappia io di questa Forza Italia? Non mi occupo da tempo di politica e men che mai di Forza Italia. Al momento sono concentrato sulle guerre persiane.

Direttore, c’è stata una metamorfosi?

Come le ho detto, non saprei dirle, ma posso, però, proporle un gioco: “trova le differenze”. Lei lo conosce certamente, è quello che talvolta si trova sulla “Settimana enigmistica”: si mettono due vignette accanto e bisogna trovare le differenze.

Le racconterò, quindi, con leggerezza e con una buona dose di autoironia (aiuta a non perdere la bussola) di un’altra Forza Italia.

Io sono stato una persona fortunata, perché devo a circostanze del tutto fortuite se ho iniziato a fare politica: sono uno dei tanti miracolati che il sistema di reclutamento della classe dirigente di Forza Italia ha generato dal momento della sua fondazione, e uno dei pochi che ne ha consapevolezza.

La politica è una brutta bestia e spesso trasforma persone mediocri in eccellenze, ovviamente soltanto ai loro occhi. Si convincono di essere geni, di cui non si può fare a meno, anzi, ritengono di essere in quel posto perché sono gli unici che lo possono occupare.

Quando dico “miracolato”, intendo nel senso che non sono cresciuto a pane e politica, come avveniva nella prima Repubblica, quando arrivavi ai vertici dopo avere fatto una lunga gavetta nella gerarchia di partito, oppure dopo esserti fatto le ossa partendo dal basso nel sistema di governo e scalando, gradino dopo gradino, i successivi stadi con il voto popolare.

In Forza Italia non funzionava così, almeno per alcuni.

Bastava entrare a far parte di una cerchia di persone che Gianfranco Miccichè aveva preso a cuore o a simpatia e le tue fortune politiche erano assicurate.
Potevi essere migliore o peggiore di altri, ma questo contava poco o nulla.
Iniziai, quindi, la mia esperienza politica ‘reclutato’ da Gianfranco Miccichè.

È passato davvero tanto tempo, ma il ricordo di quel primo incontro è ancora scolpito nella mia mente.

Erano seduti in un tavolino al bar Roney: Gianfranco Miccichè, Giuseppe Catania e Pippo Fallica.

Li ho scritti nell’ordine di quella che era la gerarchia in quel momento, anche se in Forza Italia all’inizio sembrava che Giuseppe Catania dovesse essere il leader e Gianfranco Miccichè una sorta di comandante in seconda: il primo era destinato ad essere la mente pensante e l’altro il braccio operativo.
Successe però che, per dirla con Francesco Guccini, Giuseppe Catania “volando sull’acqua stagnante e sopra i mari di quell’ Universo, mentre pensava se stesso pensante in mezzo a quel buio, si sentì un po’ perso” e, in effetti, si perse.

Troppo veloce Gianfranco Miccichè e troppo furbo Pippo Fallica, che ben presto da terzo passò secondo, nella sostanza, intendo.
Di fatto, nella scala gerarchica del partito, quella delle caselle di comando, Pippo Fallica non compariva. In fondo i gradi sulla divisa a cosa gli servivano? Il maresciallo, era questo l’azzeccatissimo soprannome, comandava senza le mostrine.
Aveva capito, infatti, che a lui bastava ascoltare tutto quello che serviva, stare vicino a Gianfranco, nel senso letterale del termine, e intervenire per ultimo.

Nella storia di Forza Italia in Sicilia c’è stata gloria per molti (caratteristica comune a Forza Italia nazionale): illustri personaggi o presunti tali, comprimari della prima ora, astri nascenti, apparizioni folgoranti, eroi per caso e fugaci comparse, ma Pippo Fallica è stato capace per lungo tempo di resistere a tutti gli attacchi e a tutte le tempeste.

Come faceva? Gli parlava per ultimo.

Così come mi raccontano che facesse, nell’ultima versione di Forza Italia prima di quella odierna, Ugo Zagarella, che alla stregua di Richelieu ottenne il cappello cardinalizio e divenne ministro favorito, beneficiando improvvidamente anche dell’incondizionata fiducia del suo mentore (il Cardinale mi vorrà perdonare per l’irriverente paragone, ma l’ho usato solo per il cappello, non certo per le sue abilità).

Se qualcuno avesse voluto scrivere la storia della nascita e della crescita di Forza Italia in Sicilia, che naturalmente non fa parte di questa narrazione, che la sfiora in maniera solo superficiale e, spero, divertente, avrebbe dovuto scegliere il genere narrativo del teatro dell’assurdo.

E’ cambiato qualcosa? Non so dirle.

Posso dire soltanto che è ancora sicuramente un partito molto aperto e inclusivo, pronto ad accogliere figli, le cui crisi d’identità li avevano portato più volte a smarrirsi.

Berlusconi è fatto così.

Adesso, se vuole, possiamo provare a fare il gioco che le proponevo.
Provi ad immaginare una vignetta che illustra una stanza con il simbolo di Forza Italia e dentro Gianfranco Miccichè e Ugo Zagarella e gliene metta accanto un’altra uguale con Renato Schifani e Marcello Caruso.

Per trovare le differenze, pensi solo a cosa occorre oggi per avere assicurata fortuna politica in Forza Italia, osservi la struttura e la catena di comando. Nella ricerca delle differenze sono ovviamente escluse le qualità personali. Sono tutte e quattro ottime persone e, chi più e chi meno, tutti cari amici.

Vuole sapere se anche Caruso gli parla per ultimo? Non ne ho idea perché non ho frequentazioni nel partito, ma mi raccontano che a Caruso, in una delle ultime volte in cui lo seguiva impettito e fiero, il Presidente Schifani dovette fargli notare che stava per entrare in bagno.

Direttore, se poi mi sforzo di guardare anch’io la vignetta, quello che vedo è che Caruso gli può parlare per primo o per ultimo, ma nonostante le sue indiscutibili capacità ed il suo riconosciuto coraggio, senza permesso non può neppure decidere di rivolgere lo sguardo da una parte o da un’altra.


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