PALERMO – Decisive per le indagini, che si basano per lo più sui resoconti mediati dalle microspie, le intercettazioni nascondono insidie per gli stessi investigatori. Veri e propri trappoloni. Il caso Consip tiene banco. Un carabiniere, Gianpaolo Scarfato, secondo l’accusa, avrebbe manipolato una frase su Tiziano Renzi, padre dell’ex premier Matteo, attribuendola ad Alfredo Romeo, l’imprenditore in prigione per corruzione. Ed invece sarebbe stata pronunciata dall’ex parlamentare Italo Bocchino.
A volte nella trappola sarebbero caduti gli “utilizzatori” delle frasi registrate. Giornalisti inclusi. Altre volte le conversazioni captate dalle cimici fanno da cassa di risonanza per le indagini. E non importa se neppure saranno ascoltate, come quelle del capo dello Stato che dovette rivolgersi alla Corte Costituzionale per fare distruggere le bobine dei suoi dialoghi con Nicola Mancino.
I pubblici ministeri del processo sulla trattativa Stato-mafia, allora coordinati da Antonio Ingroia, volevano depositare e ascoltare quelle telefonate da loro stessi definite “penalmente irrilevanti”. Il presidente Napolitano, mentre i media anticipavano l’esistenza delle telefonate, si oppose con fermezza. Prima si rivolse all’Avvocatura dello Stato, poi al procuratore generale della Cassazione e infine sollevò un conflitto fra poteri senza precedenti. La Consulta gli diede ragione e le intercettazioni furono distrutte.
Dalle intercettazione mai ascoltate a quelle fantomatiche. In un’aula di giustizia prosegue la querelle fra i giornalisti de L’Espresso e i pm di Palermo. I primi dicono di avere ascoltato l’intercettazione fra il governatore Rosario Crocetta e il suo medico personale, Matteo Tutino, che su Lucia Borsellino avrebbe detto: “Va fatta fuori come il padre”. I secondi sostengono che la frase non esiste. E lo dicono dopo avere sbobinato le intercettazioni del chirurgo plastico. Le smentite del capo della procura di Palermo, Francesco Lo Voi, non hanno cancellato del tutto nell’opinione pubblica la convinzione che la frase sia stata pronunciata davvero e nascosta in qualche cassetto per chissà quale motivo. Potenza del passaggio sull’autorevole settimanale.
E che dire dei mafiosi che a Corleone vivevano nel mito di Totò Riina e Binu Provenzano. Si sentivano onnipotenti e vaneggiavano di assassinare l’allora ministro dell’interno Angelino Alfano (“se c’è l’accordo gli ‘cafuddiamo’ una botta in testa”) perché lo consideravano responsabile dell’aggravamento del carcere duro che tanto li spaventa. Avrebbero voluto riservargli la stessa tragica sorte toccata a John Fitzgerald Kennedy. I magistrati dissero che si trattava di un “mero sfogo”, e che “parlare di progetto di attentato contro il ministro è troppo avanzato”. Ormai, però, il baraccone si era messo in moto, compreso la onnipresente gara di solidarietà.
Nel mito di Matteo Messina Denaro viveva Calogero Giambalvo, ex consigliere comunale di Castelvetrano, che soffriva di una patologica propensione per la millanteria. Alle microspie rassegnò un racconto surreale. Aveva incontrato il latitante che se ne andava in giro a cacciare per le campagne trapanesi. Si erano visti, riconosciuti e abbracciati in un fiume di lacrime. “Fesserie, solo fesserie”, ammise al giudice in un interrogatorio tutto da leggere.
“Ha mai incontrato Matteo Messina Denaro?”, gli chiese il pubblico ministero Maurizio Agnello. Risposta: “Mai l’ho incontrato”. Quindi millantava? “Sì”. Il giudice Nicola Aiello andò al cuore della questione senza giri di parole: “Scusi ma lei quando parla allora parla così tanto per dire. Secondo lei, a meno che non è pazzo, uno non si mette a dire che conosce Messina Denaro?”. Risposta: “Ha ragione, ha ragione. Io cercavo di vantarmene, ha ragione, perché quel periodo era un periodo brutto”. “Quindi era un motivo di orgoglio conoscere Messina Denaro?”, “Non è un orgoglio, guardi che io ho fatto anche uno statuto contro la mafia”; “A maggior ragione, mi scusi ma se io faccio una attività antimafia, se lei dice io faccio uno statuto contro la mafia, non dico che conosco Messina Denaro”. “Me ne vantavo, mai visto”. Nel frattempo, però, si sono persi tempo e soldi per sbobinare una delle costosissime intercettazioni e per verificare che si trattasse di una pista inutile.
Perché a volte basta un niente per cambiare le sorti di un’indagine. Molto dipende dall’ufficiale di polizia giudiziaria che se ne sta con le cuffie ad ascoltare ore e ore di conversazioni e poi gli tocca trascriverle nei brogliacci. E così può capitare, ne è convinto il difensore di un presunto mafioso di Monreale, che non venga riportato il rumore del motorino di avviamento di una macchina che si inceppa. L’uomo d’onore era rimasto in panne. La benzina del “bidoncino” non gli serviva per dare fuoco alla macchina di un nemico, ma per rimettere in moto la sua di macchina.