Nei giorni scorsi aggiungersi al coro delle critiche a Vendola per la sua paternità (o maternità?) surrogata sarebbe stato come sparare sulla Croce Rossa. Da quando alle scuole elementari la voce della mia maestra monarchica, classe di ferro 1910, m’impresse nella memoria le immortali parole che Francesco Ferrucci rivolge al vile Maramaldo, ‘tu uccidi un uomo morto’, trovo sgradevole infierire. Se è vero che bisogna saper perdere, è ancor più vero che bisogna saper vincere. Già troppo quest’Italietta amorale eppur moralista ha preso la sua meschina rivincita contro la malcapitata coppia. Truffatori, maniaci, torturatori di animali, rapinatori di vecchiette, stalker, borseggiatori da tram, esportatori di valuta, investitori ubriachi, evasori fiscali e quant’altro, in buona compagnia di uomini e donne ‘normali’, bipedi ai quali se levi la possibilità di riprodursi non rimane legittimazione a occupare spazio nell’orbe terracqueo, si sono auto conferiti il ruolo preferito in Italia, aex aequo con quello di commissario tecnico. Un esercito di novelli giudici, a un passo dal trasformarsi in un nutrito drappello di boia, ha discettato su una serie di punti, tutti, a ben vedere, connessi ma diversi fra loro: il matrimonio gay; la maternità surrogata, pratica definita una forma di sfruttamento d’una morta di fame che usa il proprio corpo per far soldi non in molteplici incontri, ma nell’unico, miserabile ‘colpaccio’ della sua vita; e, da ultimo ma non ultimo, la genitorialità, ovvero come si ponga rispetto a un figlio la coppia omosessuale e che tipo di effetti possa avere crescere con una coppia di soli papà o di sole mamme sullo sviluppo psico-emotivo di un bambino.
Il senso di fastidio verso ogni sorta di linciaggio, tuttavia, non elude una domanda di fondo. Cosa fa d’un genitore un padre o una madre? E se nemmeno si è genitori, almeno non in senso biologico, è ancor più difficile?
Le frequentissime esperienze di coppie di separati con figli che, passando ad altra relazione, immettono in un nucleo familiare una nuova figura genitoriale, mostrano risultati variabili caso per caso, o meglio, casa per casa. Nelle linee generali, si riscontra una maggiore adattabilità dei maschi a essere genitori di prole non propria; le donne, specie se sterili nella precedente unione, o single, quando non appaia un prepotente istinto materno che prima si riversava su Fuffi o Micio, sono più restie a concedere spazio nel cuore, oltre che nell’appartamento, non tanto ai figli del compagno, quanto ai figli ‘dell’altra’; ma, accanto a quelle pessime, esistono molte buone prove di attitudine paterna o materna verso figli non partoriti, o generati.
Occorre comunque fare attenzione ad alcuni dati statistici relativi a numerosi eventi di cronaca nera. Senza necessità di ripescare l’abusata immagine della partoriente che butta il neonato nella spazzatura (e non perché non sia reale e frequente, se si considera che gli ultimi ritrovamenti di corpicini nei cassonetti risalgono a qualche settimana fa), si rileva che i peggiori abusi, le più turpi violenze, perpetrate fino all’omicidio, avvengono tra le mura domestiche. Dunque, di che cosa stiamo parlando? Di quale famiglia, di quali genitori, di quali figli? Forse di quelli da pubblicità dei biscotti, che al mattino fanno colazione tutti insieme e si danno il bacetto prima di uscire festanti da casa? Ma non scherziamo, via, perché l’argomento è troppo serio.
Molti lustri or sono, quando presi, grazie a un miracolo, la patente di guida, mi trovai a riflettere su un punto: per guidare un cubico ammasso di ferraglia con motore occorreva la patente. E per mettere al mondo un figlio, un essere vivente, niente. Niente. Nemmeno il più piccolo, ridotto, stupido attestato di idoneità. Certo, dal punto di vista giuridico, non è ammissibile che lo Stato interferisca su quella che è la sfera più personale dell’essere umano; pensiamo con sgomento, ad esempio, alla coercizione che il governo cinese opera per il controllo delle nascite. Senza arrivare a questi estremi, il giovanile impegno volto alla costruzione di una società più giusta come era (non è più così, lo so) normale, auspicava una maggior tutela dell’infanzia indifesa. Che non è stata conseguita; tutt’altro. Se siamo al punto che si uccide un neonato perché piange la notte, – e questo non accade all’interno di una famiglia con problemi di sopravvivenza, ma in seno a una medio-borghese – penso che parlare di idoneità a essere genitori sia un tema di estrema attualità, che prescinde dalla questione dell’identità di genere.
Molti lamentano le lungaggini dei procedimenti di adozione: ma vogliamo renderci conto di quanto sia importante che un bambino, un bambino senza altre difese che quelle che i genitori medesimi gli possono e devono garantire, sia affidato a una famiglia sana? E qui appare chiara la prima discrasia del sistema: un bimbo dato in adozione si colloca in un ambiente più controllato di quello dove capita per nascita; e, a proposito dell’astuto Vendola, che ha suscitato una bagarre mediatica di buon successo, vorrei aggiungere una noticina solo apparentemente banale. In agosto Vendola compirà 58 anni. Testa ne ha 39. Se anche fossero una coppia etero, esiste una norma della legge sulle adozioni che riguarda la corretta massima differenza di età fra adottanti e adottato, e si tratta di una differenza stabilita con larghezza, proprio in favore della possibilità di adottare. In buona sostanza, le coppie più avanti negli anni devono adottare bambini più grandi.
Ma no! Chi può comprare tutto, compra un neonato, che lo riconosca come figura parentale autentica, primigenia. I bimbi dolenti e innocenti dei campi profughi, o gli orfani degli istituti, sono colpevoli di essere troppo cresciuti per appagare l’ego di chi nell’essere genitore vuole espandere se stesso al di là d’ogni orientamento sessuale.
Non ho certezze da esprimere sulla paternità di Vendola; come chiunque provi a fare esercizio di pensiero, sono piena di dubbi; so che non ha violato, nel nostro Paese, la legge, poiché la gravidanza surrogata è legale sia in Canada, dove è avvenuta l’inseminazione, che in California, dove è avvenuta la nascita; che non avrebbe potuto ricorrere all’adozione perché qui è vietata alle coppie gay; che tante coppie eterosessuali italiane hanno fatto ricorso alla gravidanza surrogata; infine, che tranciare sentenze e accuse contro la surrogazione delle nascite non ci assolve dall’indifferenza, e non comporta automaticamente la promozione a paladini della sorte dei bambini venuti al mondo senza colpa con l’‘immorale’ modalità della gravidanza surrogata, né di quella delle migliaia di piccoli profughi di guerra, parimenti senza colpa, che distrattamente sbirciamo in tv, cambiando canale, come se si trattasse dell’ennesima fiction.
La scienza non è in grado di prevedere oggi come sarà tra cinquant’anni un bambino cresciuto con due padri o due madri; è certo però che per essere un buon genitore, e stiamo specificando l’ovvio, occorra avere una immensa provvista di altruismo e di abnegazione, e che il benessere e i diritti dei bambini vengano prima di tutto. Vendola e compagno, compiuta la propria scelta, hanno deciso di renderla pubblica: si sono volontariamente esposti ai commenti più disparati, alla possibilità di diventare icone di battaglia o oggetti di vilipendio; questo non significa che tale scelta fosse la sola possibile, né che avere un figlio rappresenti un diritto a ogni costo. Se è vero che le coppie gay in Italia non possono adottare, molte di esse hanno bambini in affido, e vivono nel modo più alto e disinteressato l’esperienza genitoriale. Percorrere questa strada sarebbe stato più in linea con tante, forse strumentali, rivendicazioni di giustizia sociale, ma, evidentemente, propugnare il diritto alla famiglia omoparentale, il ‘diritto al figlio’, conquista spazio dai media e rappresenta un gruppo di elettori identificabile, e questo un politico lo sa bene; altro che convinzioni in materia familiare!
Rimane il dato obiettivo che l’utero in affitto in altri paesi non è reato, anzi è regolato per legge. Sarà un peccato per la religione e un obbrobrio per la morale, ma un fatto non costituisce reato quando non vi sia una legge che lo definisca come tale. La sensazione, tuttavia, è che la maternità surrogata sia il trionfo del capitalismo sulla vita umana, in una lotta per la sopravvivenza che diviene più dura di giorno in giorno, nella quale vince il denaro, che ovunque riduce in rinnovata schiavitù i poveri del mondo, e giunge a trasformare i bambini in merce per soddisfare l’ennesimo desiderio del ricco. Ci sono innumerevoli possibilità di dare amore a bambini soli, ma comprarli cash e ready to wear è più cool.
Quante madri cederebbero un bimbo appena partorito? Eppure, bastano centomila dollari per procurarsi, dietro stipula di un contratto, una maternità surrogata nello stato federale che combatté la guerra di secessione per abolire la schiavitù, dove a nessuno viene in mente che si tratti di una forma di alienazione del corpo umano assimilabile alla proprietà degli schiavi e al loro uso ed abuso. E il protestato amore per il nascituro, con tutte le promesse di futuro benessere, non riesce a farmi dimenticare la sofferenza d’una povera donna costretta alla firma di un simile accordo.
La storia è emblematica, e, ripeto, c’entra poco col sesso dei genitori. C’entra molto, invece, con la loro essenza. E, con ogni umana considerazione per le persone, non è una tragedia non potere avere figli, per coppie etero e no. Lo è, invece, sfruttare le difficoltà di sussistenza di una donna per avere il suo utero in affitto.
E’ la voglia di amare, il bisogno di dare, la forza sublime che, pur in mezzo a errori e difficoltà, fa crescere giorno dopo giorno un padre e una madre, o due padri, o due madri, o due nonni, o due affidatari insieme al bambino, come genitori. Aspirare a esserlo non può tradursi nel ‘fabbricarsi’ un figlio mentre tanti bambini soffrono e aspettano solo di essere accolti e aiutati. Se si è etero, si può adottare. Se non lo si è, specie se per decenni si è stati gli alfieri del gay pride, si potrebbe provare ad accettare con serena consapevolezza che una coppia gay non può generare. O costituisce un segno di potenza ‘virile’ raccogliere in un contenitore il proprio liquido seminale? Procreare un clone di se stessi? Volere a tutti i costi il figlio nostro? Altro che ‘pride’! Qui a militare è una postura culturalmente subalterna, intrisa di narcisistico egoismo.