Se qualcuno muore, Palermo esprime il suo senso di colpa con una sperimentata consuetudine: comincia a chiamarlo per nome.
E adesso chiama ‘Gigi, Gigi, Gigi’ – ovvero, Luigi Maria Burruano – col rimorso, che segue la scomparsa, di non avere amato abbastanza colui che è morto, almeno finché era vivo.
Ma quelli che – in una mattina di acqua dal cielo e di rado sole – solcano con passo incerto le tavole del Teatro Biondo non sono colpevoli di nulla, se non di un peccato: avere amato Palermo alla follia e amarla ancora, con tutto il cuore e con tutto il fegato di cui sono capaci. Loro, a buon diritto e con affetto, non si stancano di ripetere: “Gigi…”.
E sono qui – nella camera ardente allestita sul palco – i draghi di una bellezza ormai irraggiungibile, i protagonisti di un’epoca teatrale d’oro e c’è chi rimane gloriosamente sulla breccia. Si riconoscono – chissà se qualcuno sfuggirà all’appello – nell’intercapedine tra luce e ombra. Ci sono Lollo Franco, Benedetto Raneli, Mario Pupella, Raffaele Sabato, Nino Drago, Angelo Butera. Alcuni si appoggiano a un bastone e incedono a fatica sulla scaletta che conduce lassù.
Hanno litigato – i magnifici attori palermitani – e poi si sono amati e riconciliati e poi ancora divisi e riappacificati e poi ancora…. Ma all’ultima scena, nessuno ha tradito l’altro, nessuno ha mai firmato il registro dell’assenza. Sembrano angeli con le ali ripiegate, a piedi, o in attesa di qualche tipo di autobus. Eppure, se le aprissero, che voli, che magia. Infatti, incantano e tessono trame di sogni.
Essendo comunque primattori, ognuno di loro ha un aneddoto, uno spettacolino, un guizzo da esibire, in morte dell’amico e del collega. “Sai che mi diceva Gigi? – comincia Raffaele Sabato, cioè il Sindaco Isidoro – Si toccava la pancia e mi diceva: qua dentro c’è una cantina sociale. Oggi è tornato al Biondo da defunto. E non aggiungo altro”. Lollo Franco ha un vestito chiaro e gli occhiali scuri. Sembra prosciugato. Somiglia a un Amleto vecchio che non abbia mai smesso di singhiozzare per suo padre, il re. Sul feretro appoggia una foto di Burruano: camicia a righe, sorriso storto, occhi che andavano e venivano dall’amarezza all’ironia.
A domanda, Lollo risponde con sincerità: “No, Palermo, talvolta, non sa ricordare. Però io voglio vincere la scommessa: la memoria di Gigi non verrà smarrita. Siamo stati amici per cinquant’anni. Prove e prove con la bottiglia di birra a due passi, gli scherzi perfino pesanti. Venivamo dal classico, tuttavia eravamo a nostro agio in quel clima popolare. Potevamo ottenere di più? Forse, ma non abbiamo mai voluto abbandonare Palermo per Roma”. Ed è la confessione di una malia che è insieme maledizione e benedizione. Avevano Palermo addosso, come un sortilegio, come un destino. Potevano allontanarsene solo un po’, portandosi appresso il mare, il caos, la sporcizia, i gelsomini. Poi dovevano tornare, per fame e per sete. Costanza Licata sussurra: “Mio papà Salvo l’avrà già abbracciato”.
Il lutto di tutti lo ha condensato Tony Sperandeo su facebook, al millesimo: “Il mio caro amico fraterno e compagno di lavoro per tutta una vita è scomparso da poche ore. Sono devastato dal grande dolore che provo in questo momento. Perdonatemi non ho la forza di aggiungere altro. Vi invito a pregare per lui assieme a me. Ciao Gigi “cognato mio”.
Gigi e il teatro. Gigi e il cinema. Gigi e quel suo vivere e morire da solo. Gigi che chiedeva amore, ma non sapeva tenerlo. Gigi che era un buono, un’anima di burro, e se ne vergognava. Le voci si sovrappongono nell’amarcord. Gigi che diede una coltellata all’ex genero e scambiò il tribunale per un palcoscenico. Il suo legale l’aveva avvertito: mi raccomando, voliamo basso. Le cose andarono – si narra – pressapoco così. Giudice: “Signor Burruano, ma lei la coltellata gliel’ha data?”. “Signor giudice, è stato un gesto: ‘touchè” (con relativa mimica). Custodia cautelare e sipario.
Gigi che sapeva tutto. “Gli ho chiesto: come va il fegato?”, racconta Salvo Piparo, un discepolo, un figlio. La risposta: “Il fegato sta bene. E’ che sto morendo”. Gigi che non voleva morire in ospedale, per una volta aveva bisogno di una rappresentazione privata. Alessandro, il ragazzo che lo accudiva, l’ha trovato nella sua casa di via Uditore, rannicchiato, in pace, come se dormisse, come immerso in un sogno di carezze e battimani.
E adesso coloro che l’amavano davvero, senza negarsi il lusso di trovarlo ogni tanto insopportabile, piangono di uno strazio fraterno. E si abbracciano, come i reduci di una guerra combattuta a lungo, per amore, contro la felicità. Qualcuno scoppia perfino a ridere, aprendo il velo della mestizia. Ed è giusto, nel bene e nel male, nella tenerezza e nella rivalsa, che lo spettacolo di Luigi Maria Burruano finisca così: con una risata come ultima preghiera. Esiste forse un modo migliore di chiedere perdono a Dio?