Saint Jean Sur Richelieu – Canada – Inverno. “Papà! Papà! Che cosa è il ghiaccio?” Faceva freddo e quel grande specchio bianco e trasparente giù nella valle, contornato da montagne innevate, alberi folti come un esercito di soldati, sembrava messo lì per la vanità delle nuvole. “Il ghiaccio? Vedi Gilles, quando fa freddo, l’acqua si stringe, si fa piccola, si raccoglie vicina, e una goccia abbraccia l’altra, per sentire meno freddo”.
Non so se fu per questo, ma l’idea di correre su quella superficie ghiacciata, che per la fisica ha una spiegazione, ma che suo padre provò a raccontargli in maniera diversa, fu per Gilles Villeneuve, una maniera per aiutare quella comunità di gocce d’acqua. Accarezzandole velocemente, infatti, lui sapeva che più veloce andava e maggiore era la forza d’attrito sconfitta che, invece delle armi, a quel punto avrebbe deposto calore. Immagino che questa possa definirsi come una gratuita generosità. Dalle gare in motoslitta sulle nevi canadesi passò alla Formula Atlantic dove non fece altro che vincere, così da far sapere in Europa, che a quel tempo era la patria della Formula Uno, che lui c’era.
Forse era tardi: aveva compiuto ventisette anni quando debuttò con la McLaren a Silverstone. Tre mesi dopo, però, guidava una Ferrari, e correva a casa sua: a Mosport. Il Drake aveva tra le mani la carta giusta per dimostrare, con quel talento, che Niki Lauda poteva andare dove diavolo voleva, perché quello che contava era la vettura e un pilota che la onorasse. Quel mago del Drake, però, non sapeva quanto questa sua convinzione, in quel caso, gli sarebbe costata cara in termini sentimentali, affettivi, umani. Perché quello era l’incontro unico tra un mito dell’automobilismo e chi lo sarebbe diventato senza nemmeno vincere nulla e in appena sessantasei gran premi. Uno di fronte all’altro, stavano chi aveva faticato, sudato, la posizione raggiunta nella storia dei costruttori di automobili e uno che, nel breve spazio di un respiro, senza nessuno sforzo apparente, sarebbe entrato dentro l’eternità. Sessantasei gran premi disputati come se ognuno fosse l’ultimo e con una solo scelta a disposizione: andare sempre all’attacco. Una scelta che metteva in posizione periferica finanche la vittoria, sua o di un altro pilota, o un qualsiasi altro evento di cui lui non fosse il protagonista.
Le cose impossibili
Nessuno ricorda, ad esempio, che nel Gran Premio di Francia del 1979, a Digione, la Renault portò alla vittoria per la prima volta un motore turbo. Nessuno lo ricorda perché quel Gran Premio sarà ricordato, per i secoli a venire, per la sfida all’ultimo respiro per il secondo posto tra Villeneuve e Arnoux, e per i tre giri più indimenticabili della storia dell’automobilismo, fatta da frenate oltre il limite, sorpassi senza senso logico, ruote bloccate o spinte le une contro le altre come in un autoscontro di un Luna Park nel giorno della festa, ma a più di duecento all’ora.
Nessuno si ricorda chi vinse il Gran Premio di Montreal del 1981, ma anche su Marte sanno che Villeneuve arrivò terzo correndo come un folle su una pista che sembrava Piazza San Marco con l’acqua alta e che lui percorse per ben dieci giri senza l’alettone anteriore, volato via, ma che già era inefficiente e inutile sin dall’inizio della gara, per via di una deformazione provocata da un urto con un’altra macchina.
A Montecarlo, nel 1981, su un circuito che sta al motore turbo come un frigorifero all’Alaska, rimontò Jones per tutta la gara, e a quattro giri dalla fine, alla Sainte Dévote, dove non puoi sorpassare nemmeno un automobile ferma, per quanto è poco lo spazio a disposizione, lui mise la Ferrari tra una carezza data al guardrail e una alle ruote della Williams di Jones, passando e facendo venire giù le tribune del circuito, per l’incredulità e la gioia.
A Jarama, sempre nello stesso anno, recuperò in un attimo quattro posizioni alla partenza sorpassando tutti con metà macchina sul prato, assumendo il comando senza lasciarlo più, pur avendo dietro quelle stesse quattro macchine che erano nettamente più veloci della sua, e soprattutto assetate di vendetta, guidando la sua Ferrari attraverso traiettorie che altri umani non avrebbero nemmeno preso in considerazione, per ben sessantasei giri, tenendo tutti dietro dentro lo spazio di poco più di un secondo misurato all’arrivo.
La lealtà e il tradimento
Era un uomo leale. Scheckter lo sa bene che senza quella lealtà forse il titolo di campione del mondo non lo avrebbe mai vinto. A Monza, quell’anno, Gilles era più veloce, avrebbe potuto vincere e mettere in discussione il primato del compagno di scuderia. Ma non lo fece per amicizia: era giusto che fosse del suo compagno quel mondiale. Con Didier Pironi fu diverso, e quel Il 25 aprile 1982, durante il Gran Premio di San Marino, forse si misero le basi per quei pensieri che lo accompagnarono in Belgio togliendogli la lucidità necessaria per uno che andava sempre oltre il limite. La vicenda è storia. Villeneuve e Pironi erano primo e secondo, e dai box, per preservare i motori, arrivò per ambedue l’ordine di rallentare, visto il distacco. Pironi non lo fece e questo portò, attraverso una serie di incomprensioni, ad un avvicendarsi dei due in testa, con l’ordine di scuderia però sempre valido e ripetuto.
All’ultimo giro Pironi sorpassò nuovamente e per l’ultima volta Villeneuve e vinse. Nessuno può dirlo, ma quel comportamento infantile di Pironi, patito da uno come Villeneuve, che lealmente ma con sofferenza tentò fino all’ultimo di rispettare l’ordine di scuderia, alzando il piede dall’acceleratore (forse la sola volta nella vita) fu per lui un pensiero dolente che gli rimase nella mente, e su cui, forse, nelle settimane successive, era così ricorrente da non dargli pace. Cambia poco, ovviamente, ma forse tra le ombre e le luci della Foresta delle Ardenne, non si accorse che la March di Mass era di fatto quasi ferma, avviandosi lentamente ai box dopo il suo giro di qualifica, perché anche in quel momento, pur spingendo al massimo, una parte della sua mente continuava a cercare una risposta umana a quello che lui aveva inteso come un tradimento.
Quarant’anni
Aeroporto di Bologna – 5 Maggio 1982 – Primavera. Un urlo di pneumatici frustati dalla forza di gravità, fece voltare tutti dalla parte dell’ingresso dell’Aeroporto bolognese. Villeneuve entrò, dopo un poco, con una borsa a tracolla. Erano già tutti lì, compreso Pironi che subito gli chiese “Quando ci hai messo oggi?” Era la loro sfida quotidiana. Continuava ad esserla anche da quando Enzo Ferrari aveva provveduto a togliere a Villeneuve e Pironi le due Ferrari da strada, per dargli una più sicura utilitaria, visto che la Polizia Stradale era venuta a conoscenza di quella sfida. I due, però, continuavano comunque a gareggiare sui tempi di percorrenza su strada. Un giorno, quando ancora avevano a disposizione una Ferrari, Villeneuve aveva fatto il record di 2 ore e 20 minuti, da Montecarlo a Maranello. La sfida di quel giorno era su quanto tempo ci avrebbero messo da Maranello all’Aeroporto di Bologna. “Oggi non ho gareggiato. Avevo pensieri. Non è una scusa: oggi hai vinto tu”.
Ormai sono passati quarant’anni, da quel giorno in cui tirai giù qualche lacrima di troppo, lungo l’autostrada Adriatica che mi riportava al Sud dopo la gita di classe che chiudeva la mia esperienza scolastica delle Superiori, dopo aver appreso in un Autogrill che Gilles era morto nell’Ospedale di Lovanio. Brutto posto per morire, il Belgio. Diciamo che lacrimai da Rimini a Pescara: nemmeno tanto. Non so nulla dell’Altro Mondo, ma so che in Questo Mondo, in quarant’anni, io ho visto degradare in noi una delle cose più rilevanti dell’animo umano: l’ardore di vivere nonostante i suoi rischi. Quell’ardore e quell’entusiasmo, senza i quali ogni curva diventa un pericolo, ogni rettilineo una lunga pausa senza quei contenuti ambiziosi che ci spingono a tenere giù l’acceleratore, sperando che finisca presto e arrivi la prossima curva, l’ennesima sfida con la forza di gravità e con l’Universo intero, senza alzare il piede di un solo millimetro: fino all’ultimo.