In Italia, secondo una ricerca ISOS commissionata da Save the Children, il 95% degli adulti e il 97% dei ragazzi possiede uno smartphone, conduce un’esistenza intensamente social e ha, in media, cinque profili. Questo esercito di iperconnessi sembra inconsapevole delle tracce che lascia sul web. Tutti sanno che i dati vengono registrati, ma non esattamente quali; pur se preoccupati, accettano l’idea che la cessione di informazioni sia il contraltare della necessità stringente di usare internet.
Il 20% dei ragazzi condivide video e immagini intime con coetanei e adulti, anche solo conosciuti in rete, sebbene il 72% sappia che non è sicuro farlo. All’esasperato presenzialismo non corrisponde la cura della storia personale, e non si compiono azioni efficaci per proteggere la propria immagine: cancellare post passati, eliminare il tag da foto postate precedentemente, bloccare i molestatori su Facebook o Whatsapp. E, soprattutto, non si riflette prima di agire, non si conta fino a un milione – e nemmeno fino a dieci, purtroppo – prima di inviare nel cybespazio immagini la cui diffusione potrebbe rovinare la vita.
Questa scarsa attenzione ha spesso conseguenze drammatiche. Dallo scorso millennio, diciamolo senza ipocrisia, siamo tutti consapevoli del propagarsi di pornografia e sesso virtuale, e, da quando internet è diventata colonna portante delle nostre esistenze, del libero accesso anche da parte di minori a contenuti che benevolmente definiamo impropri. Dalle prime chatroom alle apposite app, dagli sms a Snapchat, è stato un attimo, con la conseguenza che, in assenza di vera formazione all’uso corretto del digitale, specie per i giovanissimi, il sentimento e la sessualità confluiscono nella miseranda cessione di brandelli di sé, e della propria intimità, solo perché “lo fanno tutti”. Gli aspetti connaturati e connaturanti dell’essere umano sono delegati al mondo virtuale. La mancanza di una reale affettività non esenta, però, da bruschi risvegli quando, per cattiveria o per vendetta, foto e filmati vengono letteralmente dati in pasto al popolo dei social, sempre più affamato dell’umiliazione degli altri.
Si è diffusa l’odiosa pratica di vendicarsi di un ex, o di un generico “nemico”, diffondendo via internet materiale a sfondo sessuale che lo ritrae. Il fenomeno ha assunto dimensioni preoccupanti a causa dell’invasiva presenza dei social nel quotidiano. La locuzione “revenge porn” associa la parola vendetta a pornografia, rendendo intuitivo l’uso distorto di immagini o video che ineriscono alla più privata delle sfere personali, pubblicati sui social network o sul web a scopi vendicativi, ovviamente senza il consenso della persona ritratta.
Gli episodi di revenge porn mietono innumerevoli vittime, prevalentemente donne, anche adolescenti e bambine, spesso ritratte di nascosto. Il ricatto sessuale è esercitato, di solito, da persone con le quali si è avuto un legame sentimentale, a riprova del fatto che non bisogna fidarsi incautamente, perché la smania di protagonismo che impera, insieme all’assenza di freni inibitori, fa cadere la barriera di esitazioni che separa un semplice click dal baratro di vergogna in cui si fa precipitare il malcapitato colpevole di non amarci più. Tra deliri di onnipotenza e cieca fiducia, un rapporto sentimentale diventa un gorgo infernale: gli episodi di vendetta pornografica hanno talvolta esiti drammatici, concludendosi con la morte delle vittime.
Lo scorso 7 giugno, in un articolo apparso su Ansa-it Speciali, Alessandra Chini si chiedeva (e noi con lei) che fine abbia fatto la proposta di legge sul revenge porn. Ricordiamo che il caso della diffusione di immagini private di una parlamentare (nessuno è esente da vendette virtuali) aveva indotto la Camera dei Deputati a introdurre un emendamento specifico all’interno del DDL “Codice Rosso” sulla violenza sulle donne, approvato il 2 aprile (si veda l’articolo di Mauro Bondi apparso su Live Sicilia). L’esame del provvedimento è poi passato al Senato ove, in contemporanea, sono state incardinate in Commissione Giustizia tre proposte di legge sul tema: per questa nuova figura di reato, tutte prevedono il carcere. Sembra chiaro che le diverse forze politiche concordino nel ritenere il contrasto del revenge porn una “battaglia di civiltà”, ma in questo mondo che corre a velocità inimmaginabili ci sono provvedimenti che rischiano di risultare obsoleti, o non del tutto adeguati, già alla nascita.
Mirabile nelle conquiste quanto esecrabile nelle nefandezze, l’ingegno umano non conosce limiti. L’ultima frontiera del revenge porn si raggiunge col furto dell’identità: il nuovo allarme riguardo agli abusi tecnologici è costituito dalle deep-fakes, definite da Mashable, uno dei blog più popolari al mondo, “l’estrema crisi morale di internet”. Un software può sostituire il volto di una persona presente in un filmato con quello di un’altra. Si profilano inquietanti scenari, in particolar modo quando non si tratti di innocenti riprese di feste di compleanno, ma di film pornografici veri e propri con diffusione planetaria. Con i volti dei vip sul corpo di pornodivi, sono stati realizzati video che, lungi dall’essere boicottati da questa umanità morbosamente avida di scandali, hanno avuto grande seguito da parte di voyeurs maliziosi, consci dell’inganno ma comunque curiosi, e di creduloni lieti di assistere a scene hard aventi quali protagonisti attori famosi. Accorgersi della mistificazione è difficile: un’immagine viene sovrapposta a un’altra dopo che l’intelligenza artificiale ha esaminato una quantità di video, analizzando e immagazzinando i dati relativi ai volti su cui deve “lavorare”, utilizzandoli poi per “fonderli” uno sull’altro sincronizzando espressioni, luci, movenze.
Se personaggi famosi in tutto il mondo, con imponenti mezzi finanziari e schiere di avvocati, hanno avuto enormi difficoltà nel dimostrare che il pornovideo che li ritraeva era falso, cosa ne sarà dei comuni mortali?
I rischi sono potenzialmente sconfinati. Un’azione educativa che consenta ai giovani di sviluppare la consapevolezza dei pericoli derivanti da certi comportamenti è ormai indispensabile. Forse, occorre ripartire dell’educazione sentimentale di flaubertiana memoria, prima che da quella sessuale. Spesso non c’è riparo dalla crudeltà dei coetanei e dalle perversioni degli adulti; ma acquisire discernimento e capacità di scelta farebbe evitare di essere vittime di un reato come di commetterlo. Internet può essere un potente strumento di condivisione per la crescita individuale e collettiva, e una voragine di distruzione. E’, appunto, uno strumento, e gli strumenti bisogna saperli usare, altrimenti ci si fa male.
I giornalisti Nick Hopkins e Olivia Solon nel 2017 pubblicarono sull’autorevole The Guardian un report di estremo interesse, dal titolo “Facebook flooded with sextortion and revenge porn”. Riusciti ad avere accesso ai files del social network ove erano immagazzinati i contenuti che i moderatori “bannano”, rivelarono come le immagini offensive eliminate fossero circa 54 mila ogni mese. Solo nel mese di gennaio erano stati registrati 2.450 casi di ritorsione sessuale al fine di estorcere denaro e bloccati 14 mila account da cui era partito materiale pornografico e pedopornografico.
Una ricerca della università australiana RMIT, appena pubblicata su Computers in Human Behavior, sugli abusi sessuali “per immagini”, attesta che un adulto su dieci ha scattato foto di nudo o registrato filmati di nascosto. Delle 4.200 persone intervistate, di età compresa tra i 16 e i 49 anni, più del 6% ha condiviso le immagini o i filmati “rubati”, il 5% ha minacciato di farlo, mentre una su 5 è stata vittima di porn revenge. Abusi digitali e persecuzioni sono più diffusi tra gli adolescenti, soprattutto nella scuola superiore, mediante apps come Snapchat. La proposta? L’unica possibile: educare a relazioni rispettose di sé e degli altri.
Il fenomeno della vendetta mediatica, difatti, non solo, come è evidente, non risparmia i minori, ma li coinvolge quali vittime preferenziali, data l’ingenuità e la propensione alla fiducia proprie dell’età. Qualsiasi inchiesta e qualsiasi tentativo di prevenzione in relazione all’età adolescenziale andrebbe però condotto su un doppio binario: quello della vittima e quello del carnefice. Se per stimolare la propensione all’autotutela occorre sollecitare nei giovanissimi accortezza e stima di sé, occorre anche decongestionare i grumi di risentimento e di aggressività che lievitano fino a divenire macigni di odio contro tutto e tutti, specie quando, come frequentemente accade, i piccoli bulli sono a loro volta vittime di famiglie e gruppi sociali violenti; la trasmutazione nel ruolo di aggressore innesca processi con difficile soluzione di continuità. Torniamo al punto dolente: la realtà familiare in cui si vive, quella esterna che non aiuta, anzi fa paura, le relazioni difficili con adulti che abusano del proprio ruolo per depredare e ferire.
Dante colloca nel nono cerchio dell’Inferno, l’ultimo e il più piccolo, i traditori di chi si fida. Sono i peggiori; sono più colpevoli dei ladri e degli assassini, perpetrano subdolamente il loro delitto mediante l’inganno di “colui che ‘n lui fida”, offendono non solo i vincoli naturali, ma quello speciale che nasce dai legami affettivi. Un amore davvero “speciale” dovrebbe ispirare in particolare i genitori, ma anche gli insegnati e tutti coloro che si relazionano con i bambini, a essere esempio e baluardo in una società scossa fin dalle fondamenta dalle nuove tecnologie, nella quale sembra si possa ottenere tutto e invece mancano le certezze essenziali e sono messe in dubbio le basi stesse della convivenza. L’educazione è diventata un’emergenza. E, nell’educare, è decisivo il senso di responsabilità: in primo luogo personale, quindi collettiva. La mancata assunzione di responsabilità ha determinato pessime conseguenze sulla formazione delle nuove generazioni. Occorre rimediare agli errori; o lasciare che si consolidino come le nuove e nefaste frontiere del progresso.