PALERMO – Un anno fa un professore genovese si presentò alla Dia di Trapani. Era preoccupato di avere incrociato Vito Nicastri, a sua insaputa, negli affari siciliani. Quel professore era Paolo Arata e oggi si è scoperto che era socio del ‘re del vento’.
La storia di quella “visita” finì subito in una relazione di servizio. Alla luce dell’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, secondo gli investigatori, Arata mise in atto il più clamoroso dei bluff. Pochi mesi dopo, infatti, nel 2018, parlando con uno dei figli di Nicastri, Arata ammetteva le cointeressenze economiche con Nicastri, del quale non poteva non conoscere i guai giudiziari.
A Nicastri, infatti, era già stato confiscato un patrimonio miliardario costituito per lo più da società leader nel settore delle energie alternative. La sua scalata era avvenuta grazie alla sponsorizzazione dei mafiosi trapanesi e una parte dei guadagni servivano per sostenere la latitanza di Matteo Messina Denaro.
“… io nel duemilaquindici ho dato trecentomila euro a tuo papà, basandomi su un rapporto di fiducia”, diceva Arata a Manlio Nicastri. Ed era sempre Arata a spiegare a un avvocato nel luglio del 2018 che “….qui stiamo parlando in camera caritatis. Io sono socio di Nicastri al 50%…”. Gli agenti della Dia avevano messo il suo telefono sotto intercettazione su ordine del procuratore aggiunto Paolo Guido e del sostituto Gianluca De Leo.
Aveva costituito con lui un reticolo di affari con Nicastri, ma con gli agenti della Direzione investigativa fece finta di non conoscerlo. Perché Arata bluffò? Forse per capire fin dove fossero giunte le indagini sul suo conto ora sfociate a Palermo nell’inchiesta che lo coinvolge per intestazione fittizia con l’aggravante di mafia. È la stessa inchiesta che nel capitolo romano ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati per corruzione del sottosegretario della Lega, Armando Siri, a cui Arata avrebbe dato una mazzetta da 30 mila euro.