CATANIA – “Il teatro italiano, purtroppo, va esattamente dove sta andando questo Paese. Da nessuna parte”. C’è molta amarezza nelle parole di Guglielmo Ferro, regista catanese di 47 anni, una vita sui palcoscenici di tutta Italia e soprattuto in una città che lo ama da sempre e che lo vorrebbe più presente. Lui però, da ormai più di un anno fa il pendolare tra Catania e Londra, dove lavora la moglie e dove studia la figlioletta.
“Dopo il grande successo dell’inaugurazione dei mondiali di scherma (spettacolo in Piazza Università, venticinque Paesi collegati, migliaia di contatti internet e più di cinquemila spettatori presenti, ndr) di cui ho curato la regia, qui nella mia città ho fatto poco teatro”.
Per quale motivo?
“Un po’ perché sono arrivate poche offerte interessanti, un po’ per scelta personale; mi mancano gli stimoli, forse perché in questo momento trovo che il mondo del teatro sia triste e squallido. Quindi appena ho avuto la possibilità di avvicinarmi al mondo degli eventi sportivi, delle inaugurazioni delle grandi manifestazioni -che è un mondo che usa nuovi linguaggi e nuove tecnologie- mi ci sono buttato a capofitto. Per questo mi sono spostato a Londra -oltre che per un desiderio nostro, mio e di mia moglie, di far crescere nostra figlia in un ambiente davvero europeo- in occasione delle Olimpiadi, e poi ci sono rimasto. Anche se una decina di giorni al mese la passo ancora qui, a Catania”.
Non è troppo pessimista, la sua visione del teatro?
“Non credo. Qui è tutto bloccato. Fermo da circa vent’anni in posizioni acquisite, di privilegio. E questo è il dramma dell’Italia, non solo del teatro o dell’Università, badate bene. E’ un problema che raccoglie tutto il sistema Italia. E non dobbiamo nemmeno cedere alla tentazione di accusare solo la politica. II gioco di rivolgere al politico tutte le colpe del mondo ha fatto il suo tempo. E’ il sistema che non funziona più, e non produce niente, perché è cristallizzato.”
Quale potrebbe essere la soluzione per uscire dall’impasse?
“Naturalmente, il rinnovamento. Il teatro non è riuscito a rinnovarsi e questo ha portato alla disgregazione dello stesso. Ma non c’è da stupirsi, perché è quello che succede a tutta la società civile. Bisognerebbe quindi mettere il cuore oltre l’ostacolo e riuscire a capire che dobbiamo cambiare tutto”.
Ma tutto cosa?
“La mentalità innanzitutto. E’ fondamentale stabilire nuove regole nell’economia culturale. Fare dei teatri, per esempio, per parlare del mio campo, strutture nuove e moderne capaci di attrarre investimenti e fatturato. Allora, esempio: il National Theatre è un centro di aggregazione, è un bar, è un ristorante, è un bookshop, è una nursery. E alla fine della filiera produttiva, è il luogo dove la sera ci sono i grandi spettacoli. E’ una struttura, però, che vive e produce tutto il giorno. Tutto questo produce ricchezza.”
Anche il Piccolo di Milano è così. Ma al Sud tutto ciò è utopia.
“E noi dovremmo fare in modo che non lo sia più. Vede, vivendo a Londra aumenta la mia pena, perché mi rendo conto che noi siamo davvero rimasti indietro. A mio parere, ora come ora, per riportare il mondo del teatro agli splendori del passato ci vogliono dieci anni. Durante i quali i teatri pubblici devono imparare a rispondere a sani parametri economici, senza tradire la loro mission. Credo innanzitutto che nell’arco di 5 anni i bilanci di tutti gli enti debbano essere risanati e portati a una partecipazione che sia per il 30% di denaro pubblico e per il restante da fatturazione. I teatri devono fatturare, dobbiamo capire questa verità fondamentale. E non è certo con le modalità che ripetiamo follemente da venti anni che questo si può ottenere”.
Si sta candidando alla guida di un teatro siciliano?
“Assolutamente no. Ho già 47 anni, non posso essere certo io a farlo. L’impegno per rimettere il teatro sui giusti binari sarebbe così oneroso e totalizzante che non posso certo essere io a portarlo avanti. Io devo fare il regista. Ci vogliono i giovani. Ci vuole qualcuno che si prenda dieci anni di tempo, senza fare altro, solo per portare avanti un teatro e la sua grande tradizione”
Un manager culturale?
“Esatto, che faccia solo quello. Non un regista che abbia in testa innanzitutto la sua carriera e poi il teatro. Mi spiego meglio: l’artista in quanto tale è auto referenziale, si crede il migliore del mondo (se no non farebbe l’artista) quindi è la persona più sbagliata per dirigere quella che è un’azienda. Perché nel migliore dei casi, dandogli il beneficio della buona fede, sceglierà solo sè stesso. Nel peggiore, ucciderà gli altri. Ritorniamo ad usare i cliché che hanno permesso al teatro italiano di diventare quello che è diventato nel dopoguerra”
Grandi artisti con grandi manager, quindi.
Grandi artisti con grandi manager. Allora esaminiamo la storia dei grandi teatri. Milano, Genova, Catania. Sono nati dal connubio di Paolo Grassi e Giorgio Strehler, di Ivo Chiesa e Luigi Squarzina, di Mario Giusti e Turi Ferro. Ci vuole un manager che tenga ben chiari gli obiettivi produttivi. Portare fermento culturale e farlo produrre. Io, e penso tanti altri come me, vorrei vedere in città una miriade di spettacoli; nuovi, vitali, giovani, in luoghi impensabili. Pensati con nuovi linguaggi. E invece è la totale assenza”.
Perciò il passato, la grande tradizione catanese del teatro, forse era più futuro di adesso?
“Sicuramente. Guardi, ai tempi della gestione di Mario Giusti c’erano due teatri -piccoli, uno era il Musco e l’altro il Verga- e più di 15.000 abbonati. Ora ci sono sette teatri e poco più di 3.000 abbonati. Abbiamo avuto un aumento dell’80% dell’offerta di posti disponibili e una diminuzione dell’80% degli spettatori. Lo vogliamo dire o no, che c’è un problema? Ma è un problema, ripeto, che non riguarda solo la nostra città. Riguarda tutta l’Italia. E non diamo per favore la colpa al pubblico, o alla crisi, perché a Londra -ma in tutta Europa è così- io se voglio andare a teatro devo prenotare tre mesi prima. Qui se mi presento al botteghino dieci minuti prima dello spettacolo trovo i posti in seconda fila”.