I non morti di Lampedusa - Live Sicilia

I non morti di Lampedusa

Se c'è qualcosa che noi, sopravvissuti di questo tempo, possiamo imparare da Lampedusa è la coscienza del limite

A Lampedusa sono morti in tanti, a Lampedusa non è morto nessuno. Per morire, qualcuno, deve avere un nome, degli occhi da ricordare, delle mani da rimpiangere. Quei tanti finiti in fondo al mare resteranno anonimi. Non sapremo mai che occhi avevano e cosa hanno stretto le loro mani, nell’attimo supremo e inconoscibile che tutti temiamo e che esorcizziamo. Ciò che dà spessore a un’esistenza ha il peso delle relazioni che la circondano. Per una persona normale, la perdita del suo cane, del cucciolo che gli era di compagnia da anni, rappresenta un lutto. La tragedia di Lampedusa si ferma al rango di notizia da telegiornale.

Non ci sarebbe niente di male ad ammetterlo che sono i nostri sentimenti e i nostri legami di prossimità, non la quantità dei defunti, a condizionare le reazioni e la consapevolezza di una mutilazione. E sarebbe onesto dirlo che gli annegati ci colpiscono di striscio, per un ideale astratto di umanità, tuttavia la loro dipartita non ci riduce a brandelli il cuore. Erano senza nome, senza occhi, senza identità. Erano tanti. Non erano nessuno. La contraddizione si insinua tra due blocchi: l’assenza di sensazioni intime, il senso di colpa che ci prende, quando ci accorgiamo che i migranti privi di volto non hanno parentela con noi. D’altra parte, dopo un’epoca di predicazione anti-solidale che ha scavato cunicoli e tunnel ovunque, il senso dell’umanità, l’idea di una fratellanza condivisa, la base etica necessaria per il crisma dell’appartenenza allo stesso nucleo, si è appannato, è diventato indicibile, non esprimibile. La bontà ha perso lo specchio in cui si riconosceva. I pensieri si trasformano in cenere se non hanno davanti la loro immagine.

Naturalmente abbiamo tentato di colmare il vuoto con i mezzi aleatori che la tecnica – a cui abbiamo demandato il ruolo di conforto delle nostre anime fragili – ci offre. Abbiamo scritto quintali di riflessioni in buonafede su facebook, per nasconderci il terrore di non provare niente, se non una retorica del dolore, assolutamente incapace di colmare lo spazio. E gli stessi giornali, a prescindere da qualche eccezione, hanno raccontato il massacro con tinte troppo forti, sovrapponendo il colore alla gigantesca dimensione di un evento storico e offuscandone il profilo.

Se c’è qualcosa che noi, sopravvissuti di questo tempo, possiamo imparare da Lampedusa è la coscienza del limite. E non dobbiamo mai smarrire la speranza di superarlo. Ma ciò avverrà se saremo sinceri con noi stessi. Se terremo a portata di mano uno specchio per guardarci e ricordarci la nostra statura di piccoli uomini, di migranti.


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI