C’è un gattino nero nella piazza della caserma Lungaro. Un’auto lo sfiora. Il gattino urla. E’ spaventato. Una poliziotta gentile lo raccoglie, lo accarezza, lo mette al riparo. Tutti gli altri aspettano il presidente Napolitano. Ma quel gattino nero è, a suo modo, un simbolo. E’ l’immagine riflessa di coloro che staranno in disparte, in questo giorno, con le loro lacrime, con le urla in canna. La macchina organizzativa per ricordare Giovanni Falcone è oliata, pronta per l’uso. Sarà attraversata da parole, da uomini nobili, da bambini innocenti, da riti di liberazione. Ma alle sette del mattino, nel piazzale della caserma Lungaro, c’è solo un gattino smarrito, il santo protettore di quelli che non parteciperanno. O che assaggeranno appena il cordoglio per la strage di Capaci. O che staranno ai margini, per qualche motivo: i volti invisibili che non finiranno sui giornali e nel trtitacarne delle tv. E urleranno come piccoli animali quasi schiacciati da una ruota. Oppure, inghiottiranno le lacrime, una volta di più.
Si aspetta il Presidente che è di scena qui alla Lungaro per deporre una corona di fiori in memoria degli uomini della protezione al giudice. Si chiamavano Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Li ricordano tutti come “i ragazzi della scorta”, impersonalmente. Una piccola donna attende oltre la transenna che segna il confine ai taccuini dei giornalisti. E’ la mamma di Agostino Catalano, angelo custode di Paolo Borsellino. Signora, che ci fa qui? “Ho paura di disturbare il Presidente”. Un funzionario la nota. La prende con dolcezza sotto il braccio e l’accompagna a destinazione. Ecco la macchina presidenziale. Si apre lo sportello. Scende un vecchio. E qui capisci l’abisso tra la dignità del vecchio Capo dello Stato e tanto improvvisato ceto politico contemporaneo. Il passo è misurato. L’aspetto è sofferto e composto. La mano che saluta è partecipe, ma non eccessiva. Giorgio Napolitano è il volto perfetto delle istituzioni. Somiglia a una Costituzione che cammina. La corona è deposta, mentre tuona il presentat-arm dei poliziotti in giacca e guanti bianchi, disciolti sotto il sole. Il Presidente entra ed esce. Esce pure la mamma di Agostino Catalano. Stringe il medaglione appeso al collo, col ritratto del figlio. Come è andata? “Il Presidente ci ha detto parole di consolazione e di tenerezza. Non dimenticherò mai questo giorno”. Più in là la moglie e la bellissima figlia di Boris Giuliano, in disparte sotto un albero, invisibili. Nessuno racconterà la commozione dei loro volti. C’è anche Vincenzo Agostino che ha giurato di farsi crescere la barba, fino a quando non saprà la verità sulla morte del figlio, Nino, uomo dello Stato e della Polizia. E’ arrabbiato: “Queste cose si organizzano solo per i grandi, i piccoli sono dimenticati. Sì, nessuno si ricorda di loro”. La barba è scossa da un tremito. Poco distante, Carmine Mancuso, figlio di Lenin, maresciallo di pubblica sicurezza, massacrato col giudice Terranova, annuisce. La signora Catalano, intanto, parla col medaglione, con suo figlio. Nessuno lo racconterà.
Il cerimoniale delle giornata prevede diversi passaggi. In via D’Amelio c’è un signore col berretto calzato per difendersi dal sole. “Aspetto il Presidente Napolitano. Vorrei stringergli la mano come è successo con Ciampi. Ho dimenticato il Tricolore”. C’è un uomo infuriato, perché non lo fanno posteggiare. Urla al telefonino: “C’è la cosa di Borsellino. Siamo bloccati. E’ una vergogna”. Tutte le storie palermitane, in fondo, finiscono col traffico. E c’è un’anziana che passa dall’albero di via D’Amelio, Si segna con leggerezza, poi, quasi scappa via. Anche lei ai margini della giornata ufficiale, nel posto che nessuno vede. Ma forse questi frammenti bisognerebbe raccoglierli e metterli insieme, come il segno più sincero del cordoglio, della rabbia e perfino della distrazione: insomma, della verità. E, sfogliando il libro delle commemorazioni, ci dovrebbero sempre essere da qualche parte l’eco del pianto disperato di un gattino, il sorriso di una poliziotta gentile, il tremito che scuote la barba di un padre. Una barba bianca che urla. Perché nessuno la consola.
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