Venne una mattina dello stesso colore del caffè che avevo in mano; una mattina tediosa di un tempo indecifrabile. Ero in ospedale per la dimissione difficile di un paziente speciale. L’infermiera mi avvisò dell’incontro che avrei dovuto affrontare di lì a poco. “C’è il padre del piccolo. Veda un po’ lei, è una furia”. “Può entrare nella stanza dei colloqui, fra un po’ lo raggiungo”.
Il piccolo si chiamava Lucio e aveva sette anni. Il primario di Oncologia pediatrica mi aveva detto che non aveva risposto all’ultimo tentativo di chemio e che ormai non c’era più niente da fare. Il primario è un caro amico; nei suoi occhi riconobbi la mestizia di un’illusione disattesa. Ancora una volta.
Andai incontro al papà di Lucio, trovandolo sulle difensive; bastò poco e fu tutto uno sproloquio su inefficienze, errori, ritardi e trascuratezze, presunte negligenze e nefandezze da parte del personale, “…disumani! Incompetenti!”. Era davvero incontenibile. E poi il farmaco, quel benedetto farmaco “…possibile che non si debba poter fare l’albumina? Perché? Chi è che non vuole somministrarla? Chi?”.
C’è un attributo per la perdita di ogni caro. Chi perde un genitore rimane “orfano”; chi perde il coniuge rimane “vedovo”. Ma perdere il figlio non è contemplato nel vocabolario, ha qualcosa di profondamente inaccettabile da sempre; l’umanità si rifiuta di riconoscere un profilo definito, uno statuto ufficiale e certificato per chi assiste alla morte di un figlio, per chi gli sopravvive, per chi è chiamato a rivestire un ruolo contro natura.
Lo fermammo con difficoltà ma anche con decisione, io e l’infermiera. A volte si battono i pugni per condurre sterili battaglie sugli oggetti, l’albumina, la trasfusione, la nutrizione artificiale; in realtà si sta nascondendo penosamente la vera, impossibile, frustrante e disperata guerra sui soggetti. Su un figlio che si sta per perdere, ad esempio. E ci si infuria come tori in un’arena, su questo e su quello, su terapie e programmi disattesi, su illusioni e tradimenti, fra un “è un mio diritto!” ed un “vedrete, vi denuncio!” Ma è ben altro che brucia, dentro; noi lo sappiamo. Abbiamo imparato a riconoscerli, questi colpi di mortaio contro un falso scopo.
Entrai, finalmente, nella stanzetta dove il bambino stava dormendo. Accanto alla sua mano c’era la mano di Linda, perché il contatto con la mamma sa di vita che passa di corpo in corpo, attraverso la pelle, scorrendo dentro le vene. Linda mi guardò e sorrise. Poi si alzò e mi venne incontro, mi accentuò il sorriso e le nostre mani si strinsero. Le voci metalliche cominciarono una liturgia di frasi scontate, su ciò che adesso andava fatto, tornando a casa, iniziando un’assistenza, occupandoci di ciò che sarebbe servito. Le nostre mani non si staccavano. Lei mi chiedeva di ausili e presìdi, di chi sarebbe venuto ad occuparsi di lui, di loro; manteneva un sorriso che pareva inopportuno; io fornivo informazioni utili e rassicuranti. Quel sorriso. E quelle mani che non volevano saperne di staccarsi. Poi, improvvisamente, compresi: mentre noi, le nostre bocche, i nostri visi, parlavano nel codice conveniente del da farsi, le nostre mani stavano parlando fra di loro in un altro linguaggio, su un altro piano, più intimo, nascosto. Si stavano raccontando secondo un canone spontaneo e autentico; con le mani, solo con le mani, ci stavamo scambiando delle verità sconvenienti.
“È proprio così che deve andare? È proprio così crudele e feroce il destino, da rubarmi un figlio?”, mi diceva la sua mano. “Non so risponderti, davvero. Ma so che devo starti accanto”, rispondeva la mia mano. “Sai che ho pregato tanto? Sai che continuo a farlo? Sai che spero ancora in un miracolo? Sai che mi ritrovo con una fede fragile? Sai che ho bestemmiato?”. “Qualcuno, se c’è, capirà meglio di noi”. “Quanto gli resta da vivere? Quanto resterà a me? Sai che morirò anch’io, con lui?”. “So che morirai. E che rinascerai diversa, e che porterai nel viso il segno di una ferita che ti farà più bella”. “Non potrà succedere mai”. “Non puoi dirlo”. “Dimmi che non ci abbandonerete”. “Non potrà succedere”.
Il suo sorriso cominciò a bagnarsi di qualche lacrima, ma non cambiava; restava luminoso e fisso, forse per sfregiare il destino, o forse per un’inevitabile dolcezza. Ecco: come certi mattini di primavera, che vedi il sole brillante su tutto ciò che ti circonda, eppure arrivano da non si sa dove gocce di pioggia, e ti bagni, ma c’è il sole. Questo era il suo indefinibile sorriso.
Tornò accanto a Lucio. Si accostò a lui per quell’indispensabile scorrere vitale, da lei a lui, ancora e ancora. Lucio dormiva. Uscii dalla stanza con la sommessa devozione di chi esce da una chiesa. E avevo nell’anima un mattino nero-caffè trasformato in un chiaro mattino di marzo, quando c’è un sole tiepido, eppure piovono gocce fresche. “Bene, bene, sta dormendo”.
Mi chiedevo se stesse sognando.