PALERMO – Più che una sala bingo era una lavatrice per ripulire i soldi di Cosa nostra. I mafiosi avevano scoperto che il Bingo Las Vegas di viale Regione Siciliana – una delle più grandi sale d’Europa, con un fatturato annuo di 80 milioni di euro e una superficie di 3.500 metri quadri – era una miniera d’oro.
Regge davanti al Tribunale di Palermo (presidente Pasqua Seminara, a latere Cristina Russo e Aldo de Negri) la ricostruzione della Procura. Cinque imputati sono stati condannati: Francesco Casarubea, formalmente intestatario dell’attività (7 anni), Alessandro Mannino, nipote del capomafia Salvatore Inzerillo (6 anni), Vincenzo Marcianò, considerato il reggente del mandamento di Boccadifalco (6 anni), Rosario Inzerillo, indicato come capo della famiglia di Altarello (6 anni) e il cognato di quest’ultimo, Filippo Piraino (6 anni). Tutti rispondevano di trasferimento fraudolento di denaro di provenienza illecita aggravato dall’avere favorito Cosa nostra.
Sotto processo c’era l’intera famiglia Casarubea. Nel corso del dibattimento è deceduto il padre, Domenico. Il Tribunale ha, invece, assolto le tre figlie: Olga, Cristina ed Emanuela Casarubea. Erano difese dagli avvocati Ugo Castagna e Sergio Visconti.
Nell’ottobre del 2007 la sezione Misure di prevenzione sequestrò il 20% delle quote della società “Las Vegas – Bingo s.r.l.” intestate agli imputati. Il là alle indagini arrivò dalle conversazioni di Nino Rotolo, intercettate nel box dell’Uditore dove il capomafia di Pagliarelli convocava i suoi uomini. Poi, i collaboratori di giustizia Francesco Campanella, Francesco Franzese e Andrea Bonaccorso raccontarono che più famiglie mafiose avevano trovato l’accordo per sfruttare la sala bingo, oggi in amministrazione giudiziaria e regolarmente in attività.
I boss Nino Rotolo e Salvatore Lo Piccolo erano acerrimi nemici, eppure, secondo il pubblico ministero Gaetano Paci, di fronte agli incassi del Bingo di Villa Tasca avevano messo da parte i conflitti.