Quando Don Fabrizio se ne andò, rimasi a Donnafugata. Appoggiato a una tribunedda ri Giufà, a guardare il mare. Me ne stavo a fumare addumando la sigaretta di dopo con quella di prima che si stutava. E pensavo. «Ma che differenza c’è tra il caciocavallo ragusano e il parmigiano reggiano?».
«Possibile che il primo è ancora un prodotto locale, con un poco di mercato di esportazione, mentre il secondo è simbolo del made in Italy?». M’angustiava assai la questione, e a Ciccio Tumeo galantuomo dovete credere, se non altro perché con il reggiano e con Reggio Emilia qualche cosa di non indifferente a che fare ce l’ha. Mezza parola.
Il caciocavallo ragusano rimane un elemento edile con funzione di collegamento tra piani posti a livelli di differente altezza. U scaluni. Mentre il parmigiano reggiano è sponsor della Nazionale di calcio. Di calcio! Quando il caciocavallo ragusano ha tanto calcio che, se poco poco esageri, ti levano per direttissima la cistifellea dura come una noce.
Il fatto è che bisogna costruirci sopra la comunicazione. E poi sopra ancora il marketing. E poi ancora le sponsorizzazioni. Che ne pensate della squadra di rugby. È così che si può farlo entrare nella cucuzza dei consumatori di tutto il mondo. «Non lo vedreste bene un bel caciocavallo ragusano stagionato, duro e teutonico, sulle tavole dei conterranei della Merkel?»
Insomma, sempre problema edile è, ma troppi scaluni senza mai una soletta non fanno accasamento nei segmenti di mercato. E così, a conoscerlo, sono quelli che vengono nella bedda provincia iblea. E ritorniamo al punto. Al turismo enogastronomico che è una sbornia di un mese all’anno. E Montalbano poi? Ma è mai possibile che Camilleri non si decide a farlo mangiare una sera pane e caciocavallo accompagnato da una bella brocca di acqua fresca della sterna, anziché sta benedetta pasta con le sarde! Che poi, diciamola tutta, uno a cui piace il pesce, la sera, la ghiotta si fa. Ecco.
Per fare di un prodotto locale un prodotto seriale, il surrogato del prodotto autentico ci vuole. I consumatori vanno presi per fessi. A quello serve il marketing. A rendere autentico il prodotto imbustato (packaging) che del prodotto autentico ha solo u ciauru (emotional appeal). Serve industrializzare la produzione, e non è cosa facile, perché il massaro, o il figlio del massaro devono farsi consigliare da chimici e biotecnologi e trovare formule da laboratorio. Per rendere cose da masserie cose da fabbrichetta. Ripetibili. Fatti con lo stampo. Robba complicata, come fanno gli Angioini che dei formaggi hanno le formule chimiche e non la tradizione orale che piace tanto alla gente che piace in quelle mattine d’Agosto, quando vanno a rompere i cabbasisi ai massari costringendoli a fare la ricotta alle 10 perché la sera prima sono stati da Ciccio Sultano e hanno fatto tardi.
E per concludere, per chi è pronto a ribattere che con l’Aeroporto di Comiso ci sarebbe l’esplosione del made in Ragusa, Ciccio Tumeo risponde che sono minchiate. Perché i prodotti enogastronomici innanzitutto da “growth in Ragusa” devono diventare “made in Ragusa” e poi ci si pone il problema della logistica. E, per dirla tutta, proprio al caciocavallo ragusano che più invecchia più s’intosta e meglio sa, un poco di attesa alla traghetto per Messina male non gli fa.