“Il candore delle cornacchie”, opera di Totò Cuffaro candidata al Premio Strega, è un grande libro. Andrebbe proposto nelle scuole. E forse crescerebbe una generazione nuova, sensibile al carcere. L’hanno lapidato senza manco averlo letto, basandosi sulla risposta negativa a una domanda retorica: può un uomo condannato per colpa gravissima e dunque “immorale” agli occhi della società scrivere qualcosa che affondi le sue premesse in una epistola morale? Possiamo considerare le sue parole degne di lode e menzione?
Io il libro l’ho più che letto divorato. La mia risposta, nel caso per caso, non nelle generalizzazioni confuse, è sì. Nella situazione specifica, l’autore di cui si parla sconta una pena per mafia, solo a dirlo: una pietra tombale. E’ stato sospeso sul confine di un verdetto sottile che aveva ai due estremi la libertà e la galera. La sentenza lo ha destinato alla cella. Per alcuni è stata una dolorosa necessità di giustizia, per altri una sofferenza da celebrare con scorpacciate di cannoli, per altri ancora una acuta operazione di matematica giurisprudenziale. Resta il fatto: Totò Cuffaro ha conosciuto la via delle sbarre, sopportandola con dignità e con equilibrio. E’ un primo elemento che consiglierebbe rispetto, soprattutto per le situazioni che sappiamo e per il modo con cui la politica si relaziona ai tribunali.
Poi Cuffaro ha scritto un libro. Anzi, il libro dello scandalo. Si legge nella prefazione di monsignor Rino Fisichella: “Se togli a un uomo la libertà, lo hai ferito a morte. Quando entri nel carcere devi lasciare i tuoi documenti (…). Ti lasci alle spalle la vita di tutti i giorni che nel bene e nel male ognuno gestisce come meglio crede perché anche questo è frutto di una certa libertà (…). Non lasciamo soli quanti hanno sbagliato perché non abbiamo a sbagliare di nuovo. La solidarietà e l’amore sono una reale forza di vita che può vincere e permettere di crescere insieme”. In premessa, ecco il tema caldo de “Il Candore”. La sostanza che lo rende prezioso e profondamente e amorevolmente morale.
Qui non c’è l’esclusiva recriminazione di uno che si ritiene innocente e pensa di non meritare la pena inflitta. C’è molto di più. Il nodo tra carcere e colpa. La riflessione sulla bilancia che comporta, per frutto di azioni delittuose, la privazione della libertà. Che, detto così, è un affare da codici, da “se lo meritano”, addirittura da “stanno al grande hotel”. Vissuta da dentro, la vicenda cambia i connotati. Scrive l’ex governatore: “La sensazione delle manette ai polsi è drammatica, materialmente ti stringono radio e ulna e quanto c’è attorno a essi, muscoli, nervi, vasi e pelle, spiritualmente ti trafiggono il cuore, lo penetrano da una parte all’altra, lo avvolgono con un filo spinato, lo stringono, lo legano, gli lasciano nella stretta lo spazio necessario per pulsare, e pulsando spingere le pareti al fil di ferro legato attorno, sicché a ogni pulsazione si sente la costrizione”.
Totò Cuffaro ci invita nella sua cella. Ce la fa osservare da vicino. Ci rende partecipi delle sensazioni che sono pur sempre comuni. Non è una protesta contro la barbarie che ci starebbe, dato il livello delle nostre prigioni. E’ il suggerimento di chi ci chiede di considerare le nostre certezze alla luce di situazioni concrete, degli spazi angusti. Cuffaro ci spinge a concepire la legislazione e i nostri pensieri sul carcere dall’interno, non tra le braccia di una dea bendata. Certo, il rilievo è dato dalla notorietà del detenuto eccellente. Però vale per chiunque. Per Totò, per Sasà, per tutti i militi ignoti o i personaggi illustri. “Il candore delle cornacchie” è uno splendido frammento di verità. Racconta la disumanità di un mondo troppo umano.
Io questo libro l’ho finito di leggere stamattina, davanti al mare di Sferracavallo, appena increspato dal vento. L’elemento più distante che c’è dalle sbarre di Rebibbia. Le sue parole mi hanno scosso. Sono le parole di un colpevole, di una cornacchia. Ma sono pulite. Somigliano all’innocenza.