Dopo il voto europeo la fotografia della Sicilia è mossa. Sfocata. È come un paesaggio in lontananza, sbiadito dalla nebbiolina dell’astensione. Ma a guardar bene, oltre il vuoto lasciato dai tanti siciliani che non sono andati a votare, qualcosa resta. È l’immagine di un’Isola spaccata. Divisa in due. Dove il bipolarismo sembra più un concetto psichiatrico che politico.
Prendi Lampedusa. È tutto lì dentro. L’isola racconta l’Isola, col suo essere piccolo mondo al centro del mondo. Il mondo da cui transitano disperati e dove approda il fallimento dell’Europa, così come l’abbiamo conosciuta.
È tutto lì, tra il porto e i dammusi, la storia di queste elezioni europee. Lo è nello sconfortante numero dei cittadini che hanno votato: meno del 27 per cento. E lo è nel suo racconto politicamente schizofrenico: lì il primo partito è la Lega anti migranti (passateci la semplificazione). Lontano da lì, il più votato di Sicilia (big nazionali esclusi) è il medico dei migranti in corsa col Pd. C’è una Sicilia che va da una parte e una Sicilia che va dall’altra, lungo la frattura segnata dai tempi e dagli eventi.
Su quella frattura ha danzato uno dei vincitori di queste elezioni. Gianfranco Micciché ha incassato e già rilancia. Eccola, anche nella figura del presidente dell’Assemblea regionale, l’anomalia siciliana. Il leader in Sicilia di Forza Italia si muove da Vicerè. E il 17 per cento portato a casa, il doppio del dato nazionale del partito del Cav, gli dà, eccome, diritto di parola. E Micciché non è certamente un timido. Così, il suo comunicato “a caldo”, dopo la vittoria del “suo” Giuseppe Milazzo, in realtà è un ragionamento “freddissimo”, lucido e politicamente interessante.
Micciché ha detto, sostanzialmente, che il buon risultato in Sicilia è il frutto di una linea politica ben precisa: quella dell’avversione ai populisti e ai sovranisti. Alla Lega, su tutti. Linea non seguita nel resto d’Italia (da lì, secondo Micciché, il motivo della sconfitta) e invece non solo portata avanti, ma espressa con platealità nell’Isola, anche a colpi di insulti: dallo “stronzo” al “coglione” rivolti al ministro dell’Interno, nel caso in cui qualcuno non avesse capito. E così, quelli che qualcuno potrebbe leggere come esplosioni colorite di un politico sui generis, appaiono più come il segno di una strategia chiara, di una scelta di campo precisa. Ma per fare cosa?
Il punto è questo. Perché l’antisalvinismo, Micciché lo ribadisce nelle ore del trionfo del Carroccio. Una vittoria larga, larghissima a livello nazionale (della Sicilia si parlerà tra un po’) che sembra suggerire a Berlusconi un riavvicinamento, una apertura. Che è anche indicata dai numeri. Il blocco di “centrodestra” (assai più destra che centro, ormai), a queste elezioni Europee sfiora il 50 per cento. La suggestione di un voto anticipato e di un governo di destra a trazione leghista, insomma, potrebbe farsi più concreta. Senza dimenticare che in Sicilia, nel frattempo, il governatore Musumeci non si può certo dire lontano storicamente e politicamente dalle posizioni di Lega e Fratelli d’Italia. Un blocco di destra-destra insomma che potrebbe rinsaldarsi anche nell’Isola, dopo il clamoroso 20 per cento del Carroccio. Cosa vuole fare, allora, Micciché?
La risposta probabilmente – anche per quello che si è detto – non va cercata negli equilibri nazionali. Ma nella stessa Sicilia. Pochi mesi fa, in effetti, in una intervista a LiveSicilia – concetto poi tirato fuori in altre occasioni – Micciché aveva accennato: Se dovesse nascere una cosa che piace ai siciliani, perché non dovrebbe coinvolgere anche i moderati del Pd?”. La “cosa siciliana” ha poco a che vedere, quindi, con la Forza Italia che si sta spegnendo a poco a poco. Che nel Nordest ottiene meno del 6 per cento e che a livello nazionale, senza i voti portati dalla Sicilia, vedrebbe ulteriormente ridotto il proprio margine da Fratelli d’Italia. Insomma, continuando così, Berlusconi rischia di diventare politicamente una Meloni (si parla di ampiezza del consenso, ovviamente). O addirittura di farsi sorpassare. E Miccichè ha fiutato il vento da tempo.
Così, eccolo già l’embrione della “cosa siciliana”. È nel sostegno alla lista di Forza Italia data da Cateno De Luca e ancora di più – vista la provenienza dal centrosinistra – di Beppe Picciolo: l’altroieri in lista e poi in campagna per le primarie del Pd, oggi a sostegno degli azzurri. Così come gli uomini di Lombardo che hanno appoggiato Saverio Romano. Tutti, insieme ad altri, con una radice comune in quello che fu il Movimento per l’autonomia. O anche in Grande Sud, da cui andò via un altro degli uomini di Totò Cardinale come Edy Tamajo, prima di ubriacarsi di renzismo, insieme ai suoi compagni di Sicilia futura. Eccoli pronti a tornare o rientrare. O ad arrivare direttamente dal Pd, riverniciando con qualche richiamo ideale (i diritti umani, la democrazia in pericolo…) quello che una volta era semplicemente definito trasformismo.
Eccola qui l’anomalia tutta sicula. Una Sicilia che si sveglia più “di destra” che mai: con la Lega oltre il venti, con l’ottimo exploit di Meloni, con i fuoriusciti di Forza Italia che puntano verso quei partiti e con un presidente della Regione indubbiamente di destra. Micciché ha scelto di stare dall’altra parte. Manco fosse un “compagno”. Contro i populismi e paradossalmente – eccola l’anomalia – negli ultimi tempi più in sintonia con esponenti della sinistra come Emanuele Macaluso o Vito Lo Monaco o addirittura di Leoluca Orlando. Al di là degli schemi classici che sembrano evaporati, nella nebbia dell’astensione. Dall’altra parte della frattura che divide le due Sicilie. La stessa frattura che divide Lampedusa.