Il corpo malato di Marcello | Si decida senza il suo nome - Live Sicilia

Il corpo malato di Marcello | Si decida senza il suo nome

Le condizioni di Dell'Utri sono gravi. Si può discuterne senza preconcetti. L'appello forzista.

Il tempo è una scrittura crudele sul corpo di chiunque. Nel dramma personale di un carcerato, qualunque sia stata la sua colpa, il tempo è una sentenza di fine pena mai che si invera ogni giorno. Perché niente sarà recuperato, nemmeno come ricordo, nell’intimità di un affetto disponibile. Nessuno che vuole bene guarderà i capelli che diventano bianchi per custodirne il passaggio. Non ci saranno il perdono per le rughe, né la pietà per la pelle che si avvizzisce, né la tenerezza per lo sguardo che, a poco a poco, si appanna. E se anche le porte di una cella si schiuderanno per regalare altra vita, quegli attimi saranno già stati perduti per sempre nel cuore di chi non li ha colti.

Il carcere è dunque la dannazione del corpo e il conseguente rimpicciolimento dell’anima che si restringe con le pareti dello smarrimento. Ogni occhio che si posa laggiù questo dovrebbe tenere presente, per capire, davvero, di cosa si parla. Per ora, in forza della cronaca, si parla molto del corpo malato e malandato di Marcello DellUtri, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, e c’è chi deciderà cosa farne, se concedere la libertà per gravissimi motivi di salute, oppure no.

Si è sollevata una campagna che ha visto come protagonisti alcuni ‘forzisti’ della prima ora – come raccontato anche da LiveSicilia – quali Gianfranco Micciché e Giuseppe Catania. E la petizione che chiede la scarcerazione dell’ex senatore compone, già di per sé, un atto di coraggio. Quanto sarebbe stato molto più comodo abbandonare un amico in disgrazia, voltargli le spalle, non prendersi la responsabilità di una denuncia e di una richiesta che vanno contro il comune sentire sintonizzato sulle vibrazioni della corda per impiccare, più che sulla saggezza dei codici. L’amicizia è un valore che rende nobile chi lo coltiva; prescinde dagli errori, sa riconoscerli ma non abdica mai alla vicinanza che c’era all’epoca della gloria soltanto perché poi è sopravvenuta la stagione della disgrazia.

Trattandosi di Marcello Dell’Utri – con tutta la scia di storie e di politica che si porta appresso – è ovvio che il dibattito nel tribunale del popolo sia già tracimato nell’irriducibilità delle contrapposte tifoserie. Ogni riflessione in merito rigurgita un’appartenenza che si iscrive a un flusso automatico di azioni e reazioni, senza che la coscienza c’entri nulla.

Invece, sarebbe necessario tenere presente l’assunto: in carcere, il tempo scrive sui corpi più crudelmente di quanto accada altrove. Tutte le sue parole sono irrevocabili. E perfino i silenzi mettono insieme una letteratura di sofferenza che non può far dimenticare la colpa, ma che, di tanto in tanto, potrebbe essere interpretata con una lente di considerazione umana, necessaria alla giustizia migliore.

Togliamo dunque il cognome di mezzo. Togliamo Dell’Utri, resti la persona nella sua nudità, con le sue macchie, con i puntelli fragili di un presente che frana. Si discuta sulla malattia in sé, sul declino e sul suo esito, sulla speranza che pure rimane, nel rapporto delicato tra condanna e umanità, tenendo presente solo il corpo di Marcello. Solo il corpo di un uomo, come se non avesse un nome.

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