Ci sono pomeriggi senza stagione. Come questo, a Capo Passero, sull’estremità inferiore dell’Isola. C’è da perdersi andando verso sud, sempre oltre, fino ad incontrare il mare, per una strada che sembra non finire mai. E in uno spettacolo inusuale, infine ecco il mare. Pomeriggio di cielo azzurro con le nuvole in movimento rapido, con il sole al tramonto che sembra infuocato, mentre tutto intorno un vento gelido soffia sulla sabbia disposta a dune, e sui nostri visi.
Pomeriggio senza stagione, con l’estate del sole che rinnega l’inverno del vento e di una spiaggia solitaria. Io, su una fusoliera di sabbia; di fronte, l’Isola delle Correnti, ultimo baluardo di terra lanciato come un sasso in direzione del mare aperto. C’è il faro, sull’isola, con la sua vocazione all’attenzione per marinai disattenti. Ci guardiamo, io e il faro, separati da un braccio di mare in sommossa. Sotto i nostri occhi si affrontano due mari diversi, lo Ionio e il Mediterraneo, che si fronteggiano e sbattono l’uno contro l’altro in un perenne rinnegarsi. Due mari in conflitto, nella scena di un unico tramonto. Guardo Marina e la sua meraviglia, che è anche la mia.
Incappucciati a proteggerci dai tagli del vento, siamo inopportuni residui d’inverno dentro un pomeriggio senza stagione. Più di vent’anni fa il faro ha visto consumarsi sotto i suoi occhi una tragedia immane. Lui ed un pescatore, solo loro due. Entrambi erano lì a scrutare un’acqua turbolenta e fredda, il giorno di Natale. Sul pelo dell’acqua un piccolo cumulo di abiti sfilacciati e fradici coprono un cadavere scomposto, che da giorni galleggia sotto costa avvicinandosi lentamente alla riva. Il pescatore si sporge dalla barca in un misto di sconcerto e di dolore, quindi raccoglie quei miseri resti e giunto al porto va a denunciare l’accaduto.
Le forze dell’ordine provvedono a registrare il fatto e iniziano il doveroso percorso investigativo. È un moltiplicarsi di interrogatori, accertamenti, analisi necroscopiche e congetture. Si viene a sapere di un naufragio poco distante da lì, del quale non sembra esserci traccia. L’interminabile serie di adempimenti legati al caso ha come conseguenza, tra l’altro, quella di bloccare l’attività del pescatore per parecchi giorni, procurandogli un danno economico rilevante. Deve passare tempo, molto tempo, affinché la verità del “naufragio fantasma” venga tutta a galla. Qualcuno confessa.
In quei giorni a ridosso del Natale, una fradicia imbarcazione che a stento poteva contenere un’ottantina di persone, stava attraversando il canale di Sicilia carica di circa quattrocento disperati e stava per affondare. Accorse una nave più grande, proprio quella dalla quale gran parte di quelle persone proveniva, essendo stata trasferita sulla barcaccia per l’ultimo tratto, verso le coste italiane. Le due imbarcazioni si scontrarono, la più vecchia ebbe la peggio. Si salvarono poche persone, che con i feroci scafisti si diressero verso la Grecia, dove andarono a raccontare la verità: la barcaccia affondata aveva trascinato alla morte 238 persone, consumando la più grave sciagura del Mediterraneo dalla fine della seconda guerra mondiale.
Le autorità italiane, avvisate di quanto accaduto, inizialmente non credettero a questo racconto, perché non avevano registrato nessuna segnalazione di cadaveri in mare, se non quella di quell’unico reperto fatta dal pescatore di Portopalo. Si capisce perché: i pescatori, in quegli ultimi giorni dell’anno, nelle loro reti non tiravano su solo pesci, ma anche cadaveri, uno, dieci, cento, ancora di più. Tra stupore e sconcerto, al largo dalle coste di casa, in quelle fredde giornate da mare agitato e grigio, nacque un concitato e doloroso conflitto tra chi voleva recuperare più corpi possibile per rendere un po’ di giustizia a quelle morti ingiuste e chi invece voleva liberarsene, gettando in mare quei poveri resti umani, tra lacrime e bestemmie, per evitare che lungaggini giuridiche e burocratiche portasse al blocco della pesca, riducendoli alla fame.
Alla fine prevalsero questi ultimi, “il pane è pane”. C’è da chiedersi che vittoria fosse stata questa, uno scontro tra povertà diverse, il potere del misero più forte, che alza la cresta contro l’oppositore, infrangendosi contro di lui, come le onde di due mari che si scontrano e muoiono l’una dentro l’altra.
Ma quello non era che l’ultimo conflitto, su quei resti umani. In vita, quelle stesse persone erano già in fuga da conflitti, da terre di conflitto, da guerrafondai che esaltavano e fomentavano conflitto.
Io e il faro, a guardarci. A guardare il mare sotto di noi. Un treno di onde a destra, dal mar Mediterraneo, si dirige aggressivo e incalzante contro un altro fronte di onde, opposto, contro il mare Ionio; i due eserciti marini si infrangono rumorosamente l’uno contro l’altro, disperdendosi in un unico mescolamento schiumoso, annullandosi. Perché ciò che resta, dopo ogni conflitto, è uno zero uniforme che coinvolge tutto.
Sulla strada del ritorno le dune di sabbia, alla luce del crepuscolo, mostrano ancora una rada e disordinata vegetazione selvatica. I nostri piedi affondano; le alghe essiccate nascondono come tranelli pozze d’acqua. Ci bagniamo e ridiamo, siamo salvi. Adesso il cielo si fa più buio, è quasi sera. “Guarda, la luna!” Un’umanità che genera conflitti è in perenne conflitto con sé stessa. Certo che è difficile amarsi, ma è l’unica impresa che ci resta da compiere.