Il padre con la barba bianca l’ha raccontata centomila volte la storia del figlio assassinato. Il poliziotto Nino che passeggia, con la moglie, Ida. Rumori secchi. Un grido soffocato. Un “Ahi”, come per chi è colpito dalla puntura di uno spillo, o di una zanzara molesta. E poi, due corpi per sempre a terra.
Da allora, Vincenzo Agostino ha vissuto in compagnia dei peli candidi che gli hanno prima circondato e infine quasi annegato la faccia. Un nascondimento progressivo e inesorabile. Una metafora di quello che stava accadendo nella realtà. Una foresta che copre identità e tracce, esattamente come è successo per la vicenda del figlio assassinato, sommersa, a poco a poco, da un intrico di depistaggi, bugie e aperture provvidenzialmente “casuali” sui retroscena di una presunta e proibita relazione sentimentale. Ora, la possibile svolta. La nuova pista. E un pensiero finalmente felice: “Non è giunto il momento, però posso cominciare a pensare di fare una visita al barbiere”.
Anni e anni di silenzi. Adesso?
“C’è una speranza. Qualcosa che mi rincuora. Non è stato vano chiedere verità e giustizia in tutti questi anni. Non è stato inutile aspettare che le cose venissero a galla”.
Dunque, questo a Vincenzo Agostino parrebbe il sentiero corretto?
“Secondo me lo è. D’altra parte quello che è emerso mi pare assolutamente logico. In linea con ciò che mio figlio rappresentava: un servitore dello Stato”.
Tutto quadra?
“A chi poteva dare fastidio un poliziotto che era sempre alle costole dei latitanti? Chi doveva proteggersi da lui? Sono domande che potrebbero contenere una risposta”.
Chi è stato il maggiore responsabile degli insabbiamenti?
“Gli apparati investigativi, soprattutto dell’epoca. Chi non è mai voluto andare in fondo alla vicenda. Perchè non era conveniente”.
E’ il momento di tornare dal barbiere, per tagliare quella bandiera bianca di sdegno?
Ancora no, ma forse lo sarà presto. Siamo sulla strada giusta”.