Quando penso a Francesco Foresta il primo pensiero è la tristezza per la sua mancanza, poi si affianca a lenirla l’orgoglio di averlo conosciuto e, infine, prende il sopravvento la felicità di vedere il suo lascito forte, vivo, trasferito nelle persone che ha allevato, guidato e amato. E questa sinfonia di sentimenti, talvolta apparentemente dissonante, è stata frequente in chi conosceva Francesco: passavi dal conflitto di idee e opinioni, ma sempre corretto anche quando aspro, al rifiuto (sì, alcuni non lo hanno mai capito), dalla fratellanza al rispetto, dall’avversità alla complicità. Io, che lo conoscevo pur senza frequentarlo assiduamente, ero più immune di altri dal contrasto di sentimenti che suscitava: a me restituiva “empatia”. Si era questa la sua più importante caratteristica, una empatia selettiva, una capacità di entrare in risonanza con le persone che gli piacevano e con tutto quello che faceva. Nell’attivare la sua empatia usava un rigore al limite della ruvidezza, ma anche una generosità che sempre sfociava in amore. Francesco amava tutto quello che faceva e amava le persone con cui lavorava (lui avrebbe detto di non aver mai lavorato un solo giorno, ma sempre divertito), dedicandosi a loro con l’attenzione di un padre, con la cura di un marito, con la complicità di un fratello e con l’impertinenza di un figlio. Ho seguito Francesco Foresta nelle sue ultime avventure culturali, solo apparentemente editoriali, ma a chi sapeva leggerle svelavano la precisa intenzione di cambiare profondamente la cultura, la percezione, la visione di futuro di Palermo e della Sicilia. Ed egli stesso era principe di innovazione, non percorreva mai la stessa strada, non si cullava nelle consuetudini. Quando una strada era tracciata e percorsa con successo, lui ne apriva un’altra, e un’altra ancora: perché tutto deve cambiare, sempre! Francesco amava la Sicilia e non sopportava di vederla statica, affranta, ripiegata in se stessa, sbranata. E combatteva per modificarla dall’interno, a partire dai suoi abitanti a cui ha fornito un immaginario di bellezza e ha potenziato gli anticorpi dell’impegno civile e politico. Eh sì, Francesco faceva politica in un modo mirabile, perfetto, agendo sulle coscienze e sulla costruzione di un pensiero collettivo che sconfiggesse il nostro dannato individualismo. Per questo mi piaceva e lo ammiravo. E anche quando ha saputo di essere malato ha usato la sua empatia per trasferire il più possibile di sé ovunque potesse. Sapendo di non poter essere ancora per molto fra noi, come un albero fertile ha sparso semi ovunque potessero germogliare: eponimo, da albero si è fatto “foresta” per poter continuare, trascendendo la dimensione corporea. Se non fosse per il dolore che ha lasciato la sua perdita, direi che è stato un atto d’amore trasferirsi nell’Olimpo degli innovatori, dei visionari, dei mentori. Accidenti quanto ci manchi!