Il sogno di Palermo - Live Sicilia

Il sogno di Palermo

Quella mattina c’era caldo, il caldo dei western per intenderci, con l’orizzonte, l’effetto Fatamorgana e tutto il resto. Il sindaco di Palermo si diresse svelto verso l’ingresso del palazzo. Salvatore Di Maio (ogni riferimento a persone che respirano è casuale) gli aprí le porte con la fierezza di un’aquila reale nella sua splendente uniforme da usciere. Con il suo entourage di professori, Il sindaco arrivò nella grande sala riunioni. Da quando era diventato primo cittadino, aveva proposto varie novità tra le quali la riduzione dello stipendio a 1.000,00 per tutti i dipendenti comunali, lui compreso. Il popolo palermitano come per miracolo era diventato propositivo, lavoratore. E onesto.

Salvatore Di Maio alle 12.30 aveva terminato l’ultimo giorno di lavoro. Avrebbe dovuto prendere la laurea per restare, ma non gli andava, inoltre avrebbero dimezzato il suo stipendio, come avevano fatto agli altri e a lui non andava bene. Avrebbe dovuto iniziare a lavorare 8 ore al giorno e non 4, come era stato fino a quel momento, e figuriamoci se questo andava bene. Per tutti questi motivi decise di dimettersi. “Tanto,” si diceva “Mimmo u’ malantrinu quacchi travagghiu pi mmia l’avi”. Mentre era al volante del suo gigantesco Suv ultimo modello con lettore Mp3 integrato, sentiva che nell’aria aleggiava il profumo delle zagare. Superato l’angolo vide alcune ragazze alla fermata del tram, quella vicino la nuova grande fontana. I giardini pubblici erano in fiore e i turisti ammiravano invidiosi la pulizia ed il funzionamento della città. Sulle sponde del fiume Oreto, una classe in gita si bagnava i piedi con l’acqua fresca. “Eh certo, cu stu cavuru..”, si disse. Il Suv di Salvatore non poteva entrare in centro ma da quel punto, fermo al semaforo vicino il parcheggio sotterraneo di via Libertà, si potevano vedere i tavolini dei caffè in piazza e alcune persone passeggiare all’ombra degli aranci. Il grande Teatro aveva affisso le locandine della stagione e gli addetti stavano lucidando le statue. “Cu stu cavuru..”, pensava Salvatore.

Passò davanti il centro di ricerca cittadino, una grande villa dove ogni giorno una equipe di giovani laureati propone e sperimenta idee per migliorare Palermo. Salvatore sentí alcuni dei ricercatori fermi davanti il cancello discutere di persone e teorie con nomi esotici. “Cu stu cavuru..”, pensò ancora. Guidava svelto verso l’uscita della città orgoglioso della potenza del Suv. Ormai tutti si muovevano in bicicletta o con il tram ma lui, che era un uomo vero, uno con le palle, aveva il macchinone, se lo sognavano gli altri che lo mollava! Imboccó la Strada Statale per tornare al suo paese, ogni tanto guardava il mare, sulla destra, enorme e blu. Gli veniva spesso in mente quando da bambino faceva quella stessa strada con suo padre che si era fatto i soldi con gli appalti dei palazzi, e guardava dal finestrino tutti quei bei villini, manco si vedeva il mare, prima che il decreto del 2011 li facesse demolire. In fondo era una persona sensibile lui. Quanti ricordi aveva Salvatore dei bei vecchi tempi. Quando si poteva costruire dove si voleva, quando “benomale” un amico in politica il lavoro te lo trovava, e se eri assunto al Comune era una pacchia, quando ammucciuni ammucciuni tutto si risolve. Quando per la munnizza c’era solo Bellolampo e quando la cittá venne lusingata con la scritta Hollywood.

Quel pomeriggio c’era caldo. Non il caldo delle pubblicitá del gelato e nemmeno il caldo dei film di Roberta Torre, più caldo. Salvatore Di Maio si svegliò dalla pinnica post caponata all’ombra della montagna, nel metro quadro di prato che aveva al villino abusivo. Con la coda dell’occhio vide Cetty passare lo straccio nel terrazzino e i piccoli Timoty e Valery giocare al videogioco in 3D che ù zizzí gli aveva regalato per la promozione. Guardò da lontano i muratori che stavano costruendo per lui nel terreno abbandonato dei Taormina, tanto ormai erano emigrati al nord e manco ci tenevano più i cavalli per le corse clandestine. Le mosche si appiccicavano alle braccia sudate, e mentre si grattava la panza sotto la canottiera ingiallita alzò lo sguardo. Attorno a lui decine, centinaia di altri villini lo abbracciavano in una stretta affettuosa e materna. In alto trionfavano la biancheria stesa della signora Cusimano, l’antenna parabolica di Ninni Matina e i balconi degli altri vicini. Non si vedeva nemmeno un microscopico pezzo di cielo. Rassicurato da quella visione familiare, “Minchia” disse “menomale, incubo fu!”.

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