“Eravamo morti e potevamo respirare”. Aveva trovato quel verso tra le poesie di Paul Celan e l’aveva usato per smerigliare i ricordi. Si gustava la piccola morte che segue l’appagamento – insieme, da uno ritornare due. Ripiombare nel mondo, sudati, innamorati, dopo essersi letti a vicenda. Era lì abbracciato a chi credeva di amare e un pensiero lo pescò: quel tavolo.
Sua madre aveva trasformato la tredicesima del 1987 in un tavolo per sedici persone. Suo padre l’aveva bollata come l’ultima delle tante follie della moglie, con quella tredicesima potevano fare un viaggio, comprare un nuovo televisore, tappezzare i divani. No, sua madre l’aveva trasformato in legno di noce, un ripiano tanto grande che ci si poteva giocare a calcio. L’aveva fatto perché era questa la differenza tra sua madre e suo padre, suo padre si ancorava alla solidità degli investimenti a lungo termine fatti di acronimi duri e sicuri, sua madre invece voleva rimpinzare la casa di oggetti che trasudassero amore. E quel tavolo stillava amore per tutta la famiglia, dopo decenni di tavoli e tavolini per i bambini, finalmente l’intero clan poteva mangiare nello stesso desco.
Tutti assieme, con le patate al cartoccio che giravano veloci e le forchette che finivano sempre a terra. E poi arrivava lei, la cassata gigante e i suoi canditi lucidi mitigavano tutte le incomprensioni che si erano accumulate durante l’anno. Quel tavolo era così grosso che al centro sua sorella ci aveva piazzato pure il presepe. Era un Natale bello pieno, come i piatti che passavano traballanti di mano in mano. Sua madre era soddisfatta, perfino lo zio Saro, magro come un’acciuga e alto come un giocatore di pallacanestro s’era sbottonato la cintura e il primo bottone dei pantaloni di lana rasata, era il segnale definitivo, tutti avevano gradito il cenone. La verifica ufficiale sarebbe arrivata verso gennaio, quando le zie avrebbero ritirato fuori le bilance per principiare una nuova fallibile dieta.
Erano passati dieci anni, la famiglia s’era acciaccata e il Natale era solo uno scambio di panettoni Motta e regalini smorti. Il tavolone era finito in soffitta, l’avevano rimontato lì per appoggiarci gli scatoloni pieni di passato. Era stato il nonno a trasmettere quell’assurdo attaccamento alle cose, dopo che sei sopravvissuto a due Guerre Mondiali vedi una vecchia giacca con occhi nuovi.
Era tornato una domenica mattina e l’aveva rivisto, due metri e mezzi di noce ricoperti da almeno cinque anni di polvere. Aveva messo gli scatoloni a terra e dopo aver svitato una ventina di viti l’aveva smontato in dimensioni accettabili per la sua Punto. Aveva deciso di portarsi quel pezzo della sua vecchia vita nella sua nuova casa e poi l’aveva rimontato al centro del suo studio, ci stava bene su quel tavolo. Pensava che sopra quel legno avrebbe finalmente ultimato il suo romanzo.
Lei dormiva ancora, lui s’era alzato dal letto, aveva cercato inutilmente per dieci minuti i boxer e poi aveva scelto di coprirsi con la vestaglia. Era andato da lui, dal suo tavolo e con la luce della luna che leccava la stanza s’era messo ad accarezzarlo. Ogni graffio gli ricordava qualcosa, c’era perfino la bruciatura di una sigaretta, di una delle sue prime sigarette che aveva scroccato a sua zia Anna.
“Eravamo morti e potevamo respirare”. Quel verso sapeva di vita e di luna. Annusò l’odore denso del legno che lucidava ogni settimana con cerchi concentrici di panno e cera d’api, pensò alla morte, gli capitava spesso ogni volta che credeva di aver trovato la donna giusta. Forse era inevitabile. Tutto finisce, finiva anche la cassata gigante che sua madre ordinava nella migliore pasticceria di Palermo. Erano finite pure le abbuffate di Natale che aveva creduto eterne, pensò alla meraviglia che provava quando nascondeva la statuina del bambinello sotto una ciocca di bambagia, pensò all’odore del legno, pensò a suo nonno.
Aveva iniziato a scrivere per ritrovarlo. Non l’aveva mai conosciuto, la sua faccia l’aveva vista sulla foto che c’era sul pianoforte a casa di sua sorella e sulla lapide al cimitero comunale. Il resto l’aveva messo assieme cucendo i pezzi di storie che ogni tanto galleggiano tra le parole che sua madre e le zie si scambiavano alla fine del pranzo di Natale attorno al tavolone.
Restava lì, in un angolo, fumava un’altra sigaretta sempre scroccata alla zia Anna e ascoltava. Lo faceva da quando avevo otto anni. Prima – troppo picciriddo per capire – passava il dopo pranzo attaccato al Nintendo per ammazzare i funghi e le tartarughe di Super Mario. O sgranocchiava i pupi di zuccaro, il regalo che i morti di Sicilia portano ai discendenti nella notte del primo novembre.
Ne aveva accumulato parecchi: dal cavaliere a Batman. Vestigia di zucchero glassato da mangiare prima che i vermi li facessero sparire. Con la bocca dolce di quel ricordo pensò ai suoi nonni. S’erano sposati nel ‘46, un anno dopo erano già in tre: sua madre ha la sua stessa faccia e i boccoli nella foto che la ritrae insieme ai genitori in una festa del paese degli anni ‘50.
Suo nonno è alto, sovrasta sua figlia e ha un bel cappello sui capelli quasi grigi. Navigava ancora: aveva solcato tutti i mari del mondo, si guadagnava lo stipendio e il viaggio riparando il motore e poi felice saliva sul ponte a vedere i tramonti che si incastravano sulla coda dei delfini. Se ne stava lì a fumare soddisfatto con le unghia nere di grasso lubrificante e con in bocca una delle sue sigarette egiziane. Stava lì, a pensare alle sue quattro belle figlie.
Come s’erano conosciuti i suoi nonni proprio non lo sapeva. Forse a una festa o passeggiando sui marciapiedi del Corso. Sapeva solo che la Seconda Guerra Mondiale s’era portata via il fratello di sua nonna, disperso in Russia nell’inverno dei suoi diciotto anni.
Aveva diciott’anni ed era capoclasse al Liceo Classico. Provarono a farlo restare, gli avevano detto di tagliarsi un dito… Piangendo è salito sul treno ed è andato a morire con tutte e dieci le dita, con la certezza che nessuno lo avrebbe chiamato mai “disertore”. È morto assiderato: la voglia di tornare da sua madre e da sua sorella nella sua bella casa del Corso Umberto I non è bastata a riscaldarlo.
In mezzo alla neve, con i piedi ghiacciati, la retorica del “Dulce et decorum est pro patria mori” non servì a molto. Ora è su una lapide, sulla facciata del Municipio, insieme agli altri che, dicono, furono “fulmini scagliati contro l’orda nemica”.
Suo nonno non ci credeva a tutte quelle panzane, n’era sicuro. Lui non si è tagliato nessun dito ma ha preferito fuggire, si nascose in una villa di un’amica di famiglia a Roma. Si nascose in un solaio, in una stanzetta celata dietro un armadio. Rimase lì con altri due suoi amici e aspettò. Forse scriveva i suoi ricordi e le sue lettere d’amore. Di sicuro in quell’attesa perse più di quindici chili. Ritornò dopo la fine della guerra che era ridotto a quattr’ossa infilate in un vestito blu.
Fu allora che decise che non avrebbe patito più la fame. Smise di navigare e aprì un’officina meccanica. Divenne mastro tornitore e venivano sin da Palermo frotte di donne che gli chiedevano di scegliere il loro figlio come apprendista.
L’officina andava bene, con i guadagni il nonno decise di comprare una casa nel corso e per far fede alla sua promessa scelse la casa incastrata tra un ristorante e un emporio. Scendeva spesso a comprare dolci e pezzi di rosticceria. Soprattutto quando non gli piaceva aspettare che mia nonna finisse di spettegolare prima di calare la pasta. Con i regali che aveva portato dai suoi viaggi sua zia Anna s’era riempita il suo studio medico.
Ci sono tappeti persiani, cammelli intagliati, vecchie confezioni di sigarette egiziane e poi la cosa che lo aveva sempre affascinato: un fez. Dicono che suo nonno lo usasse come cappello da camera. Forse era il suo cappello dei pensieri, l’aveva indossato anche lui qualche volta. Gli piaceva pensarlo felice, con le ciabatte e il fez, seduto sulla sua poltrona a leggere il “Giornale di Sicilia” o “Paese Sera”.
Quando chiedeva qualcosa a sua madre, lei gli rispondeva che suo padre era una persona eccezionale. Ne parlava come se fosse un gigante scivolato fuori dalle pagine di miti dimenticati. Lui lo rivedeva negli occhi della madre, nel suo naso, nel suo mignolo un po’ storto, nelle sopracciglia ancora nere sotto quel ciuffo bianco come un foglio vuoto.
Quel mignolo storto ce l’aveva anche lui. Se lo guardò nella luce della lampada e scrisse di getto: “una vita passata ad annusare le bugie delle violette di campo per poi finire in una cassa di legno a strozzare ricordi”.
Aveva finito il suo romanzo.
"Eravamo morti e potevamo respirare”. Aveva trovato quel verso tra le poesie di Paul Celan e l’aveva usato per smerigliare i ricordi. Si gustava la piccola morte che segue l’appagamento – insieme, da uno ritornare due. Ripiombare nel mondo, sudati, innamorati, dopo essersi letti a vicenda. Era lì abbracciato a chi credeva di amare e un pensiero lo pescò: quel tavolo.
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