PALERMO – È stato depositato al gip Riccardo Ricciardi il documento con il quale i pm di Palermo hanno chiesto di distruggere, come ordinato dalla Consulta, le intercettazioni delle conversazioni tra l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino e il capo dello stato Giorgio Napolitano. Il giudice dovrà adesso nominare un perito per la procedura di distruzione che avverrà senza il contraddittorio delle parti. Il perito dovrà estrapolare le conversazioni dal server nel quale sono contenute, poi verranno ascoltate dal giudice e infine eliminate. La procedura si dovrebbe concludere entro un paio di settimane.
Il Procuratore di Palermo, Francesco Messineo, ha mantenuto la promessa. “Distruggeremo i file al più presto”, aveva detto dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha imposto la distruzione delle intercettazioni del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano captate dai pm dell’inchiesta Stato-mafia, mentre indagavano sull’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. In meno di una settimana l’istanza con la quale la Procura chiede l’eliminazione di quelle telefonate, che si trovano sul server dove vengono incamerate tutte le intercettazioni, è arrivata al gip Riccardo Ricciardi.
Il giudice dovrà adesso nominare un perito che si occuperà di prelevare i file in questione, con le quattro telefonate tra Mancino e Napolitano, dal server e salvarle su un altro supporto. Le intercettazioni, tutte o in parte, saranno poi ascoltate dal gip che si accerterà che siano quelle esatte e verranno poi definitivamente distrutte.
Il tutto, secondo le previsioni del giudice, dovrebbe richiedere poco tempo: al massimo un paio di settimane. Si concluderà così una vicenda per la quale i pm di Palermo e il Capo dello Stato sono arrivati ai ferri corti, una polemica che nemmeno la decisione della Consulta è riuscita a sopire. La Corte ha stabilito l’assimilazione delle intercettazioni, anche indirette, al Presidente a quelle “eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge”.
L’utenza messa sotto controllo su mandato degli inquirenti era infatti quella di Mancino, in quella fase indagato e oggi imputato di falsa testimonianza: secondo i pm, l’ex ministro, insediatosi al Viminale il primo luglio 1992, sapeva della trattativa e avrebbe mentito sui rapporti tra pezzi dello Stato e pezzi di Cosa Nostra intercorsi nei primi anni ’90, una stagione segnata dalle stragi di matrice mafiosa, a partire dagli attentati a Falcone e Borsellino, nel maggio e nel luglio 1992. Per lui e per altri undici indagati i pm hanno chiesto il rinvio a giudizio il 24 luglio scorso e l’udienza preliminare è in corso.
Mancino, preoccupato per l’inchiesta che era in corso, ha effettuato telefonate contattando anche il Colle, tutto intercettato dalla Procura. Il Capo dello Stato ha ritenuto lese le proprie prerogative e nel ricorso ha contestato che fosse stata omessa la distruzione automatica delle registrazioni.
Ma è proprio il principio della riservatezza assoluta che il pm simbolo di quell’inchiesta, Antonio Ingroia, ora passato alla politica e leader di Rivoluzione civile, ha contestato. “La sentenza – ha detto – apre ad un ampliamento delle prerogative del Capo dello Stato, mettendo così a rischio l’equilibrio dei poteri dello Stato”. Solo la distruzione dei file potrà forse mettere fine alla querelle.
“Il giudice di Palermo che ha ora in mano il caso delle intercettazioni Napolitano-Mancino da distruggere, secondo le indicazioni della Corte Costituzionale, potrebbe sollevare dubbio di costituzionalità sull’art. 271 del codice di procedura penale, ma da un punto di vista tecnico potrebbe anche invocare il principio del contraddittorio qualora rilevasse pregiudizio per un soggetto terzo”. E’ quanto afferma il professor Alessandro Pace, costituzionalista che ha fatto parte del collegio di difesa della Procura di Palermo nel conflitto d’attribuzione con il Quirinale di fronte alla Consulta.
Ma secondo Pace questa potrebbe essere addirittura una strada “residuale”. “La Corte – dice Pace – ha ammesso chiaramente in sentenza che la valutazione delle conversazioni del Presidente intercettate non spetta ai pm, ma è in capo al giudice, il quale potrebbe quindi non voler fare il mero esecutore, ma volere effettuare una valutazione. Ora, nella sentenza la Corte Costituzionale afferma chiaramente che, ‘l’Autorità giudiziaria dovrà tenere conto della eventuale esigenza di evitare il sacrificio di interessi riferibili a principi costituzionali supremì e ne enumera diversi e tra queste la libertà personale. Supponiamo che il gip ritenesse che in una delle intercettazioni emerge un qualche pregiudizio per la difesa di una terza persona: questo si tradurrebbe in una violazione della libertà personale e in questo caso il giudice, attraverso quella facoltà di interpretazione della norma che la stessa sentenza gli riconosce, potrebbe decidere di aprire il contraddittorio”.
E in questo caso, uscito dalla finestra, rientrerebbe dalla porta proprio quello scenario che la decisione della Consulta ha puntato ad evitare, ossia un’udienza camerale con le parti, che espone al rischio che i contenuti delle intercettazioni possano divenire pubblici. Anche perché, conclude Pace, “l’articolo 271 del codice di procedura penale non fa esplicito riferimento all’utilizzo di un’udienza camerale, ma neppure la vieta”