Io non mi rassegno - Live Sicilia

Io non mi rassegno

La rassegnazione è una brutta bestia, una malattia contagiosa che tende a cronicizzarsi. Caro Roberto, non possiamo cedere.

No, caro Roberto Puglisi, non mi rassegno! Non è un grido personale di risposta alla tua arguta provocazione (“Rassegniamoci tutti”), che conterebbe poco, ma di un immaginario, però reale, nutrito coro, composto da tanti siciliani che da sempre hanno cercato nel cuore la forza per non rassegnarsi e nella mente le ragioni per non rassegnarsi. E quando le ragioni dell’impegno si sono esaurite, di fronte alle ragioni preponderanti “del lasciar perdere”, s’è chiesto al cuore un supplemento di generosità, a compensazione.

La rassegnazione è una brutta bestia, una malattia contagiosa che tende a cronicizzarsi, un virus che dopo essersi introdotto dentro di te preme alle porte dell’anima per infestarla, si fa strada in un’egoistica esigenza, che diventa quasi fisica con il passare del tempo, di sottrarsi alla fatica della quotidiana lotta contro ogni forma di illegalità, di mala politica, di indifferenza verso la vita umana e i beni comuni, di stupro permanente degli interessi collettivi. L’esito finale, infausto, della malattia cronica della rassegnazione è l’improvvisa incapacità ad indignarsi. “Panta rei”, tutto scorre, non nel senso che voleva Eraclito, del divenire, ma verso il nulla.

A volte penso alla marea di giovani che hanno lasciato e lasceranno la Sicilia, non per fare opportune esperienze formative o di lavoro all’estero, non prendiamoci in giro, quelle ben vengano, ma per ribellarsi, come è giusto per chi dovrebbe vivere di futuro e di speranza, alla rassegnazione come maledizione perenne per essere nati in Sicilia. Forse, mi domando, le cento, mille, centomila partenze “forzate” dei nostri ragazzi, passate, presenti e future, sono la firma posta sotto il fallimento di un’intera generazione, politicamente cresciuta dalla Primavera di Palermo in poi attraversando la tragica stagione delle stragi di mafia? Si, quella generazione che si era data la consegna, facendo leva su una inedita rivolta delle coscienze, di restituire questa terra ai giovani affrancata dai mali che conosciamo. Non il paradiso terrestre, per carità, ma nemmeno l’inferno di adesso.

Si pensava, un’ambizione che nel Gattopardo sarebbe stata tacciata di stupida arroganza, di potere scacciare la mafia dai palazzi del potere, di sconfiggere la sotto cultura dello scambio voto-favore, di stendere un tappeto rosso alla meritocrazia e alle competenze, di avere, finalmente, una classe politica dedita esclusivamente al bene della comunità. Invece, ci ritroviamo una politica, fatte salve le dovute eccezioni, mediocre, autoreferenziale, deprimente, assente, praticata per amici e clienti, a volte corrotta ci dicono le cronache giudiziarie, addirittura collusa, pure nei massimi vertici, ci dicono sentenze definitive di condanna. E i nostri ragazzi vanno via, scappano, raramente tornano, per sfuggire al contagio della malattia della rassegnazione di cui sono affetti genitori e nonni. Mi dirai, “allora mi dai ragione! impera il rassegniamoci tutti! No, nessuna resa, nessuna dichiarazione di abbandono. Voglio solo introdurre, in aggiunta ai tuoi, un ulteriore elemento di riflessione.

Quando si finisce nel baratro in cui siamo sprofondati, la colpa non è dei mafiosi, dei disonesti, dei corrotti e dei politicanti. La colpa è degli onesti, che non fanno mai abbastanza, pur essendo la maggioranza, per cambiare le cose e che, talvolta, si fanno aggredire da certi viziacci, per esempio dalle sirene di una politica intesa e praticata come mestiere, con annessi privilegi, e non come servizio temporaneo alla collettività, e di un’antimafia di facciata, utile per immeritate carriere. E se perdi la credibilità, perdi tutto, altro che rivoluzione, ti fanno pernacchie e riprendono fiato rassegnazione e populismi. La colpa di una rassegnazione che avanza come uno tsunami, devastante e distruttivo, inoltre, è di coloro che preferiscono non prendere mai una posizione, pronti a voltarsi da un’altra parte quando sarebbe necessario guardare insieme nella medesima direzione. La chiamavano, “zona grigia”, “ventre molle” della società. Qui arriviamo al punto, caro Roberto. Il rischio che si accompagna alla malattia della rassegnazione, degli altri, è la solitudine, la tua. La solitudine del giornalista come Pippo Fava, del prete come Pino Puglisi, del politico come Piersanti Mattarella o Pio La Torre, del magistrato come Giovanni Falcone o Paolo Borsellino, del poliziotto come Ninni Cassarà, dell’imprenditore come Libero Grassi.

Ovviamente sto citando alcuni, la lista è, purtroppo, lunghissima. Certo, eroi normali ammazzati materialmente dal mitra e dalle bombe di Cosa Nostra ma, soprattutto, avvelenati dalla malefica poltiglia fatta della rassegnazione di un popolo, delle ambiguità di molti, spesso rintanati nelle istituzioni, e della solitudine, la loro. Alla fine, fosse pure solo spiritualmente, quella poltiglia ucciderebbe anche noi. Io non mi rassegno, noi non dobbiamo rassegnarci. Faremmo un grave torto a chi ha, consapevolmente, e non solo idealmente, sacrificato la propria vita perché questa terra, un giorno, sia bellissima.

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