"Io, schiava di un call center" - Live Sicilia

“Io, schiava di un call center”

Il blitz. E dopo, il racconto di una donna di cinquant'anni. Prigioniera del suo lavoro.

Il racconto
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(di Francesco Nuccio – ANSA) – PALERMO – Per cinque anni ha lavorato in un call center, turni massacranti davanti al computer, per un compenso iniziale di due euro l’ora. Ovviamente ”in nero”. Un ”fantasma” senza contratto e senza contributi, la cui presenza in azienda veniva però certificata da un badge che controllava, insieme ad alcune telecamere, gli operatori impegnati al telefono. Fino a quando non ha deciso di ribellarsi, raccontando tutto alla Guardia di Finanza.”Non ce la facevo più a subire maltrattamenti e vessazioni di ogni tipo. Così ho deciso di salvaguardare almeno la mia dignità”. Marta (il nome è di fantasia) parla al telefono, questa volta per liberarsi da un peso insopportabile.

Ma la protagonista di questa vicenda, che ricorda da vicino il copione del film ”Tutta la vita davanti”, non è una giovane studentessa ma una matura signora di 50 anni, sposata e con un figlio disoccupato. Come tanti altri compagni di lavoro ha deciso di entrare nel mondo dei call center per problemi economici.”Per diversi anni – ricorda – sono stata dall’altra parte della barricata: ho gestito un centro estetico, pagando regolarmente tasse e contributi. Poi sono stata travolta dalla crisi, mentre mio marito, che lavorava come informatore medico, ha perso il posto dopo essersi ammalato di cuore. Così ho deciso di rimboccarmi le maniche e mi sono messa a cercare un lavoro”.

L’ingresso nel mondo dei call center avviene per caso: ”Ho letto un annuncio sul giornale: cercavano persone spigliate e con una buona dialettica, mi sono presentata e dopo un colloquio il titolare mi ha messo alla prova”. Marta dimostra subito di avere le qualità giuste: ha una parlantina sciolta, un tono cordiale e, sopratutto, sa essere persuasiva. Il suo compito è quello di riuscire a convincere gli interlocutori ad acquistare un depuratore d’acqua dal costo di ben 3 mila euro. Per ogni contratto andato a buon fine ottiene anche un bonus. In poco tempo diventa la più brava tra tutti gli operatori. Ma nonostante gli sforzi lo ”stipendio” non supera mai i 500-600 euro mensili, versati su una carta prepagata per non lasciare tracce.

”Pur di guadagnare qualcosa per la mia famiglia stringevo i denti. Quello del call center – sottolinea – è un lavoro bestiale, monotono e ripetitivo. Al telefono mi sono sentita dire di tutto: dagli insulti delle persone disturbate a casa fino alle proposte oscene. Ma le umiliazioni maggiori venivano proprio dal mio ambiente di lavoro”. Marta racconta che gli operatori del call center erano costretti a entrare dal retrobottega dell’azienda, per non essere notati dall’esterno, e che in caso di ritardi o piccole distrazioni venivano richiamati con il suono di una campanella e controllati attraverso un sistema di telecamere a circuito chiuso. ”Ho provato qualche volta a parlare con il titolare, gli ho chiesto di aumentare le pause di lavoro, di avere maggiore comprensione e rispetto nei nostri confronti. Tutto inutile”.

Fino al blitz della Guardia di Finanza nei locali dell’azienda, che però sono deserti. Della trentina di operatori al call center nessuna traccia. ”Il titolare – spiega Marta – ci ha fatto andare via in fretta e furia, consegnandoci anche dei pro memoria nel caso venissimo interrogati”. Ma attraverso i badge elettronici abbandonati in ufficio gli investigatori riescono a identificare ai dipendenti ”fantasma”. Tutti negano. Solo Marta decide di liberarsi da quel peso e racconta il suo ”inferno” nel mondo dei call center. ”Adesso – dice – sono di nuovo una persona libera”.

 


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